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 2017  maggio 19 Venerdì calendario

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Nicola Lagioia arriva davanti al Lingotto con la sua bicicletta in affitto attorno alle nove di mattina. Vede una coda davanti ai botteghini lunga quanto mezza fabbrica – e il Lingotto è lungo – e lo confessa davanti alla platea gremita della Sala Gialla: «Ve lo devo dire, mi è venuto da piangere». Qualcuno gli fa notare che è una settimana che non dorme, ma l’emozione, ribatte lui «era... tanta roba».
Gran bella giornata, ieri, per Torino e per la cultura italiana. Il Salone ha festeggiato la sua 30a edizione, dopo il lacerante strappo con Milano. I torinesi parlano di orgoglio di comunità, quale non si provava dai tempi delle Olimpiadi. Le istituzioni, come il presidente del Senato Pietro Grasso (dopo i discorsi ufficiali: «Il Salone può considerarsi la massima manifestazione in Italia dedicata all’editoria, alla lettura e alla cultura e fra le prime d’Europa»), una volta arrivato allo stand della Toscana, spiega come si misura la differenza tra il Salone del Lingotto e quello allestito dai milanesi a Rho nell’aprile scorso: «Da noi in Sicilia non contano le parole, ma i fatti e io sono qui a Torino, non sono andato a Milano».
La guerra con Milano, che il ministro della Cultura Dario Franceschini auspica finisca quanto prima nel migliore dei modi, ricominciando a dialogare e collaborare (ha infatti fissato un vertice a Roma con entrambe le città una volta finito l’evento), in realtà è riuscito a imprimere al Salone di Torino il coraggio di cambiare pelle, andare oltre i vecchi confini, svecchiarsi. Insomma, una vera botta di adrenalina che ieri è esplosa frenetica tra gli stand, con una folla che di giovedì, lo dicevano anche i più cauti, non si era mai vista. Il buongiorno si è visto fin dal mattino, con l’umore altissimo degli editori e la folla che gremiva gli stand. E subito le dichiarazioni dei rappresentanti delle istituzioni si sono tinte di quel rosa shocking «ottimista» della moquette che ricopre i pavimenti di cemento del Lingotto: «Pensare che in primavera a Torino non ci sia il Salone del Libro è come pensare a uno skyline della città senza la Mole Antonelliana. Non ci è riuscito neppure il tornado del 1954» dice Chiamparino, aggiungendo che i ragionamenti con Milano si fanno «a bocce ferme», magari lunedì quando si avranno i dati sull’affluenza (che comunque già nella sola prevendita, ancora a Lingotto chiuso, era quantificata in 56 mila presenze).
Lo stesso senso di orgoglio si percepisce dal discorso della sindaca Chiara Appendino, che cita Italo Calvino: «D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. E lasciatemelo dire: Torino, oggi, l’ha data. Torino non solo è la città del libro, ma è una comunità che ha saputo lavorare per proteggere qualcosa che ritiene prezioso: un pezzo della propria storia, della propria identità». La sindaca ringrazia i fondatori del Salone, Guido Accornero e Angelo Pezzana, come gli ex capitani Ernesto Ferrero e Rolando Picchioni, entrambi presenti in sala. E gli applausi scuotono la sala, Massimo Bray vola altissimo e parla della sua creatura, ringraziando l’intera squadra, che, come il suo vice Mario Montalcini, ha lavorato a testa bassa per questa edizione, citando nome per nome, più che da presidente da ex ministro della Cultura: «Quando ad agosto camminavamo per Torino il clima era difficile. Ma la gente ci fermava per strada e ci diceva di tenere duro. Ora possiamo dire che il vento è cambiato e il sole splende forte su Torino, sarebbe importante che a maggio 2018 attorno al nostro Salone ci fosse un clima coeso». Il ministro in carica della Cultura Franceschini e quella all’Istruzione Valeria Fedeli si complimentano con la città. Il primo non si stanca di ripetere che con Milano un accordo va trovato, che le divisioni fanno male. Qualcuno tra gli editori sorride pensando che per ora ha vinto il migliore ed è tentato di farsi un selfie con la coda ai botteghini e mandarlo in corso di Porta Romana a Milano.