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 2017  maggio 18 Giovedì calendario

Numero chiuso

Sul numero chiuso nelle università, che sta agitando le facoltà umanistiche della Statale di Milano, non riesco ad andare d’accordo con me stesso. Una voce mi dice che non serve a nulla sfornare legioni di disoccupati e parcheggiarne altrettanti in uno stagno esistenziale nel quale pullulano i fuoricorso e gli abbandoni. Ma un’altra voce, pericolosamente connessa con il cuore, mi ricorda la confusione che agitava i miei diciotto anni e rifiuta l’idea che a quell’età si possa essere già chiamati a una prova definitiva per il proprio destino, dentro o fuori, basata oltretutto su test abborracciati e talvolta pilotati.
Per accordare le due voci dovrei abitare un mondo dove prima si mettono in grado le università di esercitare il loro mestiere – che non è quello di esamifici – dotandole di aule e professori adeguati. E poi, soltanto poi, si stabiliscono le modalità di accesso. Per fortuna quel mondo esiste. Ma altrove, non qui. In Italia la fatiscenza delle strutture impedisce di affermare con certezza che la dispersione scolastica dipende dalla pigrizia degli studenti e non dalla desolazione degli ambienti in cui sono costretti a muoversi. E questo nonostante le lacrime da coccodrillo della politica, che denuncia il tasso mortificante di laureati, ma non ha mai investito nell’istruzione una quota significativa del barile di tasse spremuto dai contribuenti. Trovo bizzarro atteggiarsi ad alfieri della meritocrazia come se si fosse a Oxford senza essere Oxford. La Statale è ancora una delle migliori. Altrove si fa lezione nei cinema, e non è un bello spettacolo.