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 2017  aprile 29 Sabato calendario

«Ieri stavo nel coro, oggi canto da solo». Intervista a Tiziano Ferro

Via dalla pazza folla per preparare un tour negli stadi. Suona contraddittorio ma, nel caso di Tiziano Ferro, la scelta è intimamente profonda. «Sono una persona fragile, insicura, molto più a suo agio davanti a un mare di folla che di fronte a cinque persone» racconta, mimetizzato nella città più in vista del mondo dello showbusiness: «Los Angeles è un luogo che non esiste, i turisti quando arrivano qua non sanno nemmeno dove andare. È un posto dove puoi decidere il tuo modo di vivere».
Insomma, l’ha scelta perché ci si può nascondere?
«Cerco la normalità. Ho bisogno di vedere i negozi, gli amici, andare in palestra, correre. In Italia tutti vogliono la foto da mettere sui social».
La sua vita ha avuto molti altrove: Messico, Inghilterra, ora la California.
«Non ho nulla che mi leghi stabilmente a un posto. In Messico mi sono trasferito a 23 anni perché volevo studiare. Avevo lasciato l’università per fare questo mestiere e, pentito, avevo deciso di iscrivermi all’università linguistica. Ho passato l’esame, che era molto tosto, e ho seguito il corso per tre anni. Poi è esploso il successo in America latina».
Così ha trovato rifugio in Inghilterra.
«Il paese dei Beatles e degli Stones e degli Oasis, gli idoli della mia adolescenza. Ecco perché sono andato a Manchester. Londra, città troppo piegata dal turismo, non ha nulla a che vedere con quello che raccontano i fratelli Gallagher».
Nella scelta costante di stare lontano dall’Italia (a parte un periodo a Milano) c’è stata anche la voglia di sentirsi più libero, anche con se stesso, sul fronte della sua identità sessuale?
«La mancanza di serenità mi ha condizionato per tanti anni. Ero in un cortocircuito di accettazione. È terribile svegliarsi la mattina e pensare che c’è un pezzo di te che è sbagliato».
C’era qualcuno con cui condivideva i suoi tormenti?
«Non con i miei genitori e neppure con gli amici, ragazzi con cui sono cresciuto e che lo hanno scoperto da me con le lacrime agli occhi. Ora sono consapevole che la mia storia come personaggio pubblico può essere un messaggio positivo. Per questo mi sono impegnato come promotore del Lazio gay pride che si svolgerà a Latina il 24 giugno».
Sarà presente?
«No, in quel periodo sono in tour, ma sto aiutando a mettere insieme lo spettacolo e a trovare fondi con un’azione di crowfunding che ha un indirizzo sul web, BuonaCausa.org. Sono orgoglioso di farlo, mi piace poter stanare i sentimenti di paura e odio con un messaggio di dignità universale che riguarda anche l’America di oggi che non accetta Trump, presidente che separa le persone».
Vista da Los Angeles l’America trumpiana come appare?
«Un paese confuso, dove si respira un clima di grande libertà. Anche creativa. Vivo lì da un anno: è stato formidabile incontrare, fare conoscenze, ascoltare la radio che stabilmente tengo sintonizzata sui canali di blackmusic. Ogni tanto vado in studio a fare sessions di scrittura: sono suoni e ritmi che ritroverò nel mio prossimo album. Il ricchissimo beat r’n’b è ormai il riferimento di tutti i produttori musicali, è la base dei pezzi di Adele, di Ed Sheeran, di Taylor Swift».
La black music ha una lunga storia con lei.
«La prima volta ho cantato in un coro gospel a Latina. Avevamo un bel repertorio, non solo classici alla Happy day, ma passavamo da Stevie Wonder a Mary J.Blige. Avevo 16 anni. Un giorno il direttore venne verso di me e mi strattonò: tu canta con gli altri, mi disse. Evidentemente emergevo troppo col volume della mia voce».
Quanto tempo ha cantato nel coro?
«Fino a venti anni. È stata una grande scuola. A un certo punto come direttore arrivò Joy Malcolm degli Incognito, perché durante un tour della band a Latina si innamorò di un nostro tastierista e si fermò. Era una che con la voce menava forte e mi ha insegnato a asciugare le note».
Xdono, il primo successo, era un pezzo molto black.
«Che ho inciso solo dopo la partecipazione all’Accademia di Sanremo, quando Mara Maionchi e Alberto Salerno mi misero sotto contratto. Fino ad allora le mie canzoni non le voleva nessuno e le case discografiche mi sbattevano le porte in faccia».
Oggi c’è la fila alla sua porta, ha scritto praticamente per tutti i grandi nomi della pop music nazionale.
«Scherza, scherza sono diventati davvero un bel po’. Mi piace, difficilmente dico di no. Io sono uno che scrive a fiume, pur sapendo che poi butterò l’80 per cento. Ma, magari, arriva Fiorella Mannoia e, quel dato pezzo coi dovuti ritocchi, funziona per lei».
Lavora quasi come un sarto.
«Le canzoni sono come i vestiti, se una non va per me può essere adatta a Patty Pravo, che è una donna di una certa età».
Scherza, scherza, intanto, è diventato una star da stadio. Un tour come quello che farà questa estate se lo potrebbero permettere solo Vasco, Liga e Jovanotti.
«Ma non so se ne farò altri. Il tour dell’anno scorso era un’eccezione, anche se non c’è stato un solo minuto in cui mi sono sentito fuori luogo. Quello di quest’anno è un investimento. Magari fra 15 anni fare gli stadi sarà una cosa che tutti si aspettano da me, come succede per Vasco e Liga.».
Nel bagno di folla c’è un senso di rivalsa, dopo quell’adolescenza che lei racconta frustrante?
«Più che rivalsa, rivincita. Quello che so di certo è che, dopo questo giro di stadi, mi fermerò. Niente autunno nei palazzetti, ci rivedremo nel 2019 col nuovo album e nel 2020 coi concerti. So che può sembrare una follia, l’idea dominante oggi è che uno debba stare sempre lì. Ma per fare cose belle ci vuole tempo. È l’unico modo per non bruciarsi».
Tiziano Ferro debutta l’11 giugno a Lignano Sabbiadoro, a seguire tre date a San Siro e due all’Olimpico. Il 15 luglio chiusura Firenze.
«Sarà un concerto divertente, dinamico, pensato dal punto di vista dello spettatore non dall’ego di un cantante che si sente onnipotente. Al centro ci saranno le canzoni, ma non mi piacciono quei megapalchi costruiti per distrarre dalla musica»: è la promessa.