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 2017  aprile 21 Venerdì calendario

Tra i canneti e i fossi della mia Emilia, dove Igor è diventato un fantasma

Niente, non ce l’ho fatta a resistere, sono dovuta andarci e farmele, le strade con i posti di blocco dei carabinieri a ogni incrocio e guardare, ancora una volta, le campagne distese tra Molinella, Marmorta, Campotto, San Antonio, Medicina, Fiorentina; neanche un cane per strada, o un gatto in un campo, solo i posti di blocco coi carabinieri a coppie e il mitra in mano che ti fermano e guardano dentro il bagagliaio, metti che il fuggitivo ci si sia nascosto dentro. Gli agricoltori intanto si facevano gli affari loro ché i campi non aspettano mica che ti torni la voglia. Tra i casolari abbandonati, i canali, gli argini, i fossi, le boscaglie, i canneti: un mondo immobile bagnato dalla luce delle 14.30 che sembrava già estate, quell’estate di pianura che non fa sconti a nessuno, paradiso di uccelli e insetti, innocenti e ignari, fino a prova contraria. Sono passate più di due settimane dall’omicidio di Davide Fabbri al bar della Riccardina di Budrio e una dall’uccisione della guardia forestale volontaria Valerio Verri dalle parti di Portomaggiore da parte di un fuorilegge considerato altamente pericoloso, ormai noto in tutta Italia come Igor il Russo, anche se il suo nome probabilmente non è Igor, e quasi certamente non è russo.
Quando la scrittrice bolognese Renata Viganò scrive L’Agnese va a morire, uno dei capolavori della letteratura neorealista italiana, pubblicato da Einaudi nel 1949, sono ancora freschissimi i ricordi della sua militanza partigiana vissuta nelle valli del comacchiese, insieme al marito, anche lui scrittore, Antonio Meluschi detto “il Dottore”. Quelle valli e quei luoghi li conosceva molto bene. L’Italia era divisa in due dalla Linea Gotica: gli alleati che risalivano da sud e i tedeschi che scendevano da nord e, nel 1943, al loro arrivo avevano pensato che il delta del Po fosse il posto perfetto per realizzare una parte della linea difensiva Bologna – Comacchio, la cosiddetta Linea Gengis Khan. Ponti distrutti, muri antisbarco, postazioni fortificate avrebbero fatto il resto, ma i conti li avevano fatti senza gli osti: gli americani, che poi sbarcarono da tutt’altra parte, ad Anzio, e i partigiani che costruirono una rete capillare di resistenza coinvolgendo sempre più la popolazione locale.
Il delta del Po è calcolato in settecentottantasei chilometri quadrati e settantacinque, ora ridotti a quaranta, sono invece quelli che circoscrivono il territorio della caccia all’uomo in questi giorni. Sembrano pochi, quaranta chilometri quadrati, ma è difficile far capire a chi non li abbia mai frequentati, cosa siano di preciso quei chilometri di zona umida e valliva incastrati tra tre province: Bologna, Ferrara e Ravenna. Luoghi perfetti per nascondersi e farsi fantasmi, luoghi che solo gli oriundi conoscono davvero e nei quali sono capaci di sopravvivere (cibandosi di erbe selvatiche, anguille e poco altro) e di muoversi, spostarsi, fuggire, scomparire per poi riapparire un poco più là. Le tracce cancellate dall’acqua che sale e scende. Un terreno perfetto sul quale giocare una strategia complicata, un «deserto senza strade, dove la canna alta e il sentiero stretto danno respiro agli agguati». Nel 44-45 in quelle valli, oltre ai partigiani, si nascondevano anche ricercati delle S.S. e delle brigate nere.
È in questo mondo, che così raccontato sembra quasi l’ambientazione di una fiaba nera, un luogo immaginario e fantasmatico, e invece è qui, a due passi da casa, che si sta tessendo da due settimane la narrazione del cosiddetto killer di Budrio. In questi luoghi desolati all’apparenza, eppure ancora abitati e vissuti non soltanto dagli uccelli palustri e dalle api, ma da persone in carne e ossa che qui hanno le loro attività e le loro case e che ora vivono nella paura. Questi luoghi che se ci passi in macchina per farti un giro, in qualsiasi stagione, ti sembrano sospesi nel tempo così come sono a metà tra terra e acqua, orizzonte aperto e fitta boscaglia, canneti, strette vie d’acqua navigabili con piccole barche, canali morti, strade che finiscono su dune di sabbia e basta un passo per rendersi invisibili. La Viganò faceva dire al Comandante: «È un luogo magnifico… Le canne non fanno verde, non fanno ombra, ma nascondono. Basta stare fermi ad un metro di distanza, e di qui non passa nessuno».
Acqua torbida, zanzare, uccelli palustri, nebbia, ghiaccio, afa a seconda della stagione. È, questa, anche la terra in cui nacque intorno al 1700 la leggenda della Borda (o Bùrda, nel ferrarese, o ancora, francesizzato, Bourda) una creatura mostruosa, mezza umana e mezza strega, col volto mostruoso coperto da una maschera di cartapesta, una creatura malefica che vive nell’acqua dei canali, dei pozzi, degli acquitrini e che appare solo con il buio o nelle giornate di nebbia. La Borda attrae a sé le sue vittime, preferibilmente bambine e bambini, non per cibarsene, come si potrebbe immaginare, ma per pura, maligna, distillata cattiveria, le immobilizza con una corda o un laccio di cuoio, le strangola e poi le affonda nelle acque melmose che sono la sua dimora. Difficile immaginare un luogo più suggestivo di questo per ambientarci una caccia all’uomo senza quartiere.
Non a caso io, che sono di Budrio, più volte ho scelto quegli scenari per alcuni dei miei romanzi. In questi giorni ho ripensato alla prima stagione di una delle serie tv più belle degli ultimi anni, True Detective, ideata e scritta dal romanziere americano Nic Pizzolatto: è ambientata in Louisiana, tra canneti e valli molto simili a quelle di questa zona d’Italia. Un’epica del paesaggio che con i nostri posti di pianura tra terra e acqua sono riusciti a fare nel passato alcuni tra i più grandi registi italiani: Luchino Visconti con Ossessione, Michelangelo Antonioni con Il grido, Roberto Rossellini con l’ultimo episodio di Paisà, che racconta proprio la lotta partigiana nel Delta, e Il Mulino del Po di Alberto Lattuada tratto dal romanzo di Riccardo Bacchelli, sulla cui scena finale scorre la frase: «Così passa e ritorna il bene ed il male degli uomini e il tempo è simile all’andare del fiume».
“La Belva Igor”, qualunque sia il suo vero nome e la sua vera storia e qualunque sarà il suo destino, nel giro di due settimane è entrato nella leggenda emiliano-romagnola: tutti quelli che sono oggi bambini, da adulti probabilmente lo ricorderanno. Tornerà forse a visitarli negli incubi questa creatura mezza Rambo, mezza Borda, che striscia sul fango, resiste sott’acqua respirando con una cannuccia, si nutre di galline rubate, gatti e amare radici, carote e zucchine, uova, ha il dono dell’ubiquità ma anche quello dell’invisibilità. In quasi mille tra le varie forze dell’ordine impiegate, carabinieri, polizia, paracadutisti, oltre all’elicottero con gli infrarossi, i droni, i cani molecolari e ora, pare, perfino un sensitivo. Una creatura tra l’umano e l’indicibile, una sorta di oscura, feroce divinità che gli umani tentano di placare con offerte di cibo, come si fa con i morti, per tenerlo lontano dalle proprie case. Una narrazione al passo con i tempi, ma con un’aura antica, quasi atemporale (il Male incarnato esiste in tutti i tempi, purtroppo) che per due settimane ha tenuto con il fiato sospeso, oltre che gli abitanti della bassa, anche quelli di mezza Italia, che forse non sanno niente di questi posti, oppure non se lo ricordano e non fanno collegamenti. Sembra davvero che i luoghi, per la loro conformazione geografica, ma anche per qualcosa di difficilmente spiegabile e assimilabile a una specie di atavica maledizione, attraggano certe storie, forse le generano, ma di sicuro lo sono essi stessi, storie. Quando questa vicenda sarà finita, con la cattura del fuggitivo, con la sua morte o con la sua definitiva sparizione, non potremo più prescindere da questa imperfetta, ma appassionante narrazione che i quotidiani, le testate online e i telegiornali hanno alimentato imbeccandola ogni giorno di qualche dettaglio nuovo, fino a farci quasi dimenticare le vittime, perché il cattivo, la Bestia, è molto più appassionante delle piccole vite di gente perbene che ha avuto la sventura di incrociarne il cammino.