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 2017  marzo 27 Lunedì calendario

Comune S.p.A

Si parla molto di partecipate e dell’azione del governo per sfoltirle. Per avvicinarsi alla questione è necessario sfatare tre miti.
Mito no. 1: «Ci sono 8000 partecipate pubbliche, possiamo ridurle a meno di 1000». In realtà, le aziende partecipate a maggioranza da un ente pubblico, escluse fondazioni e consorzi universitari che sono molto speciali, sono circa 3200: tante, ma molte meno di 8000.
Da dove nasce questo mito? Prendiamo una delle quattro banche dati esistenti sulle partecipate, quella del Ministero della Funzione Pubblica che ha gestito la riforma: essa include tutte le società con una qualsiasi partecipazione pubblica, anche indiretta e anche solo dello 0,001 percento. Quindi migliaia di aziende privatissime. Nessuno al ministero sembra essersi mai peritato di guardare la struttura di questa banca dati e comprenderne la costruzione.
Mito no. 2: «Chiudere o vendere le partecipate farà risparmiare miliardi». Non illudiamoci. I dipendenti e dirigenti delle partecipate liquidate sono dipendenti pubblici, che rimarranno tali. E realisticamente sono pochissime le partecipate che possono essere vendute sul mercato. Ma le partecipate vanno riorganizzate e ridotte ugualmente, perché sono una mangiatoia, il terreno di cui si nutre il sottobosco della politica e dell’economia, dove i faccendieri si attivano per comprare favori invece di fare gli imprenditori, e i piccoli politici locali perdono tempo a negoziare nomine invece di dedicarsi all’ordinaria amministrazione, o, peggio, si fanno corrompere.
Mito no. 3: «Le partecipate in perdita distruggono valore e vanno chiuse». Per il contribuente il criterio rilevante è l’efficienza di una partecipata, non il suo risultato economico. Una partecipata può essere gestita molto male e guadagnare, perché lo stato le consente di tenere alti i prezzi in regime di monopolio; un’altra può essere gestita molto bene ma perdere soldi, perché lo stato le impone di tenere prezzi bassi per motivi politici.
STRADE ALTERNATIVE
Dopo decine di tentativi andati a vuoto, una riforma efficace dovrebbe intervenire con il machete, basandosi su tre semplici principi. Primo, un limite alle attività gestibili in forma societaria. Non c’è bisogno di una società di servizi cimiteriali, o di cartellistica stradale, o di disbrigo pratiche: sono attività che può benissimo svolgere una divisione del comune. Secondo, un limite inderogabile al numero e alle dimensioni delle partecipate a seconda degli enti locali. Non c’è nessun motivo per cui un comune di 10 mila abitanti debba avere una società di informatica o di trasferimento di tecnologia: ne basta una per regione, se proprio si vuole averla. Terzo, cinque fasce di retribuzione di dirigenti e amministratori, basate su criteri dimensionali. Agli enti locali che non rispettano queste regole verranno tagliati i trasferimenti statali. Secondo le mie simulazioni, queste semplici regole potrebbero realisticamente ridurre il numero delle partecipate dal 30 al 60 per cento, a seconda delle regioni.
La riforma approvata dal governo adotta solo il terzo principio; per il resto prende una strada completamente diversa, adottando misure irrilevanti o addirittura dannose, oltreché quasi tutte già presenti nell’ordinamento.
1) L’approccio formale. Come i tanti tentativi precedenti, la riforma ha una impostazione quasi esclusivamente giuridico-formale. Si inizia con il piede sbagliato: un’amministrazione pubblica non potrà partecipare in “società non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali”. Ma quale amministratore pubblico ammetterà mai che una partecipata è inutile?
Passato questo ostacolo, un’amministrazione pubblica può assumere una partecipazione solo in determinate categorie di società, tra le quali le fornitrici di “servizi pubblici di interesse generale”, definiti come quelle attività volte ad “assicurare la soddisfazione dei bisogni della collettività” e a “garantire l’omogeneità dello sviluppo e la coesione sociale”, ma che non “che non sarebbero svolte dal mercato o sarebbero svolte a condizioni differenti”. Qualunque sindaco può sostenere che una partecipata è necessaria per soddisfare concetti tanto fumosi quali i “bisogni della collettività”, la “omogeneità dello sviluppo” o la “coesione sociale”. Non una buona base per cominciare a disboscare il mondo delle partecipate.
2) Complicazioni inutili, prescrizioni senza sanzione, e adempimenti costosi. Ma non è solo una questione di irrilevanti leziosità giuridiche. Inevitabilmente quando ci si affida al formalismo e alla verbosità ignorando la sostanza, Il risultato è una serie di adempimenti formali inutili, ma che daranno lavoro a un esercito di avvocati, commercialisti, consulenti, e a nuovi organi che aumenteranno, invece di ridurre, le poltrone.
ESEMPI E PROGRAMMI
Ecco alcuni esempi. Le partecipate devono predisporre dei “programmi di valutazione del rischio di crisi aziendale”, inclusivi di indicatori di rischi aziendali. Quando questi segnalano una criticità, la partecipata deve adottare “senza indugio i provvedimenti necessari per evitare l’ aggravamento della crisi”. Chi definisce quali sono gli indicatori e i provvedimenti adeguati? Un giudice, dopo 10 anni di contenzioso e centinaia di migliaia di euro spesi in avvocati? Si noti che ripianare una perdita non rientra tra i provvedimenti ammissibili, “a meno che tale intervento sia accompagnato da un piano di ristrutturazione aziendale”. Basta quindi chiedere a un paio di consulenti di stendere un piano di ristrutturazione, e si può fare tutto.
La riforma tenta poi una escursione nella modernità prevedendo dei disincentivi finanziari. Nel caso di perdite di esercizio per tre anni consecutivi, gli amministratori si vedono ridotti i compensi del 30 per cento, e possono es- sere revocati per giusta causa; a meno che le perdite siano “coerenti con un piano di risanamento”. Un’altra consulenza per redigere un piano di risanamento, e la minaccia è neutralizzata. E chi stabilisce se il piano di risanamento è realistico?
Un altro adempimento formale, peraltro già previsto dalla legge di Stabilità 2014, e già dimostratosi inefficace: le amministrazioni pubbliche devono redigere un piano di razionalizzazione che evidenzi le società “non strettamente necessarie”, che “svolgono attività simili a quelle di un’altra partecipata”, o che necessitano “di contenimento dei costi”. Nessuno dei piani di razionalizzazione che ho letto prende provvedimenti seri, ed è naturale che sia così: i criteri sono tutti generici. Quando va bene, ogni tanto accorpano due partecipate, mantenendone tutte le funzioni, i dirigenti e i dipendenti. Altro fumo negli occhi, e altre consulenze.
3) Le poltrone non diminuiscono. In quasi tutte le partecipate operano sia un collegio sindacale sia un organismo interno di vigilanza. Non c’è motivo perché una piccola partecipata debba avere entrambi questi organi. Se si fosse eliminato l’organismo interno di vigilanza – operazione consentita dalla legge – si sarebbero tagliate con un colpo solo più di 10 mila poltrone. Incredibilmente, la riforma va nella direzione opposta: aggiunge un terzo organo, un ufficio di controllo interno che dovrà trasmettere “periodicamente all’organo di controllo statutario relazioni sulla regolarità e l’efficienza della gestione”. La strada per sfoltire le partecipate è ancora lunga.