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 2017  marzo 27 Lunedì calendario

Intervista a Victor Massiah

Victor Massiah al Corriere della Sera. L’amministratore delegato del gruppo Ubi, una delle maggiori banche italiane, è stato ospite in sala Albertini, continuando una tradizione che negli ultimi mesi ha visto le visite dell’amministratore delegato di Trenitalia, Renato Mazzoncini e del ceo dell’Eni, Claudio Descalzi. 
Dottor Massiah, Ubi è stato il primo gruppo bancario popolare a trasformarsi in spa, già nell’ottobre 2015. Quali le differenze, tra una cooperativa e una spa? 
«Ci sono differenze enormi. Noi però avevamo nel nostro dna entrambe le componenti. Ubi nasce da un patto che si basava su tre pilastri: popolare, federale, duale. Dopo la riforma delle popolari non solo ci siamo trasformati in spa ma, con anticipo sul piano di lavoro, il 20 febbraio abbiamo creato una banca unica, abbandonando il modello federale. In generale, tra i maggiori cambiamenti c’è la diversa logica di preparazione dell’assemblea, che nelle popolari richiede un maggiore sforzo di generazione del consenso. Anche nelle popolari l’andamento del titolo e dell’utile interessano molto, però contano anche altri elementi di rappresentanza del territorio. Comunque tutte le componenti sono importanti, per esempio continuo a incontrare i pensionati del gruppo anche dopo la trasformazione in spa». 
Ora sono i fondi a detenere la maggior parte del vostro capitale. Cosa significa? 
«I fondi difficilmente vogliono governare direttamente l’impresa in cui investono. Nel nostro caso hanno preso la maggioranza in assemblea e hanno presentato una lista intenzionalmente di minoranza, cosicché pur vincendo hanno eletto solamente tre amministratori e rinunciato alla presidenza che spettava loro di diritto. È evidente che in un contesto come l’attuale i fondi hanno la maggiore probabilità di prevalere in assemblea, ma tendono a non volere entrare in maniera diretta nella governance fino a che la società ha un andamento soddisfacente. In caso contrario hanno tutti i mezzi per sostituirci». 
Come funziona il rapporto tra azionisti di lungo periodo e fondi? 
«Il peso dei nostri azionisti di lungo periodo è tra il 20 e il 25 per cento del capitale. Il ruolo che si danno i fondi è quello di check and balance rispetto alla maggioranza del consiglio espressa da questi azionisti. È questo il loro fondamentale ruolo, il controllo e il riequilibrio». 
Ma non ci sono pressioni neppure per gli utili trimestrali? 
«Non c’è sempre una pressione univoca, perché non c’è sempre una comune opinione. La comune opinione si forma quando c’è qualcosa che chiaramente non va, perché su come far meglio le idee si sprecano, ma se invece le cose vanno male, tutti convergono. E come schema, non è male». 
Quante integrazioni sono state fatte negli ultimi anni. E quante se ne faranno? 
«Non credo che ne siano state fatte abbastanza. È inevitabile un’ulteriore concentrazione, ci sono alcune forze in azione. In primis, la forza tecnologica: la ricerca e gli investimenti in tecnologia sono sempre più alti. Seconda barriera è la compliance, la componente regolamentare. La dimensione degli sforzi, in termine di persone e investimenti, per rispettare una regolamentazione capace di partorire circa 500 nuove regole l’anno, è immensa. E uccide la banca piccola. Terza componente sono i ricavi: tutta una serie di forze tendono a comprimerli. A questo punto, se si ha una crescita molto bassa dei ricavi una cosa che puoi fare è cercare economie di scala per gestire i costi... Se però mi chiedete come avverrà questa concentrazione, non lo so. Ho la presunzione di dire che saremo in pochi. E che per ora siamo sul lato dei compratori, ma so bene che se una mattina una banca delle dimensioni dell’americana Wells Fargo decide di investire in Italia, ci compra con meno degli utili di un trimestre, dato l’attuale livello dei valori di Borsa in Italia...». 
Quando farete l’aumento di capitale? 
«In assemblea, il 7 aprile, chiederemo la delega e faremo l’aumento quando sarà opportuno. L’acquisizione delle tre banche (Marche, Etruria e CariChieti, nda) non è ancora perfezionata, il venditore deve rispettare delle condizioni e serve il via libera delle autorità, che sono diverse: la Banca d’Italia, la Bce, la Ue, l’Antitrust e l’Ivass». 
Quando vi aspettate il closing? 
«Nel primo semestre. Ma alcuni tempi non dipendono da noi». 
Quanto è importante avere il controllo delle fabbriche prodotto? 
«Valgono circa il 30% per cento dei ricavi relativi ai propri prodotti. Per questo è importante averle. Consideriamo poi che il contributo dell’asset management al conto economico è senza consumo di capitale». 
Cosa pensa del ritorno dello Stato nelle banche? E quanto durerà? Quale sarà la strategia d’uscita? 
«Per quelle che sono state le mie interlocuzioni, lo Stato non ha alcuna intenzione di rimanere a lungo. C’è perché tirato per la giacca e perché era la soluzione più razionale, se non l’unica. Ma ho l’impressione che vorranno uscire il prima possibile. Quanto all’exit strategy penso possa essere solo figlia di una rivalutazione delle quotazioni delle banche italiane». 
Perché in Italia non c’è stato un intervento più forte dello Stato? 
«Siamo poveri dal punto di vista dello Stato, siamo molto indebitati, al 130 per cento, non abbiamo ancora una storia credibile di rientro del debito, almeno fino a oggi, e quindi è difficile immaginare di indebitarsi ulteriormente». 
Ci sono una serie di società che entrano nel vostro mercato pur avendo una struttura di costi diversa. Quale può essere il rapporto tra la banca tradizionale e la nuova concorrenza? 
«Rispondo richiamando cosa fa la Banca d’Inghilterra, che non controlla le fintech per 6 mesi, un anno, lasciando loro uno spazio di libertà. Proprio per permettere a qualcuno che è un pesce piccolo di entrare sugli incumbent e di far loro concorrenza. Alla fine di quel periodo li regolamenta. Ovvero, ti do spazio per entrare, ma non è che tu giochi senza regolamentazione...». 
Capitolo Npl. C’è un tema di conoscenza? Chi vuole comperare sa sempre che cosa compera? 
«Le banche sono spesso figlie di fusioni e di tanti sistemi informativi e non tutti sono stati diligenti e ordinati. Così è più difficile ricostruire. Per fortuna noi siamo stati ordinati». 
Se ne sta occupando anche la Banca d’Italia, direttamente? 
«Lo sforzo di Banca d’Italia ha due effetti, entrambi positivi, da una parte via Nazionale si è fatta un proprio database, dall’altro ha costretto tutti gli attori a fare ordine in cantina». 
Tassi bassi, o negativi, pochi impieghi: come guadagna una banca oggi? 
«Il margine di interesse resta superiore al 50 per cento dei ricavi, però saremo costretti a breve a cercare di guadagnare maggiormente dalla parte commissionale e ad abbassare i costi, abbassare i costi, abbassare i costi. In questo siamo solo apparentemente aiutati dall’utilizzo dell’online, perché l’online, per le banche come per l’editoria, taglia sì i costi, ma si presenta anche come un’interessante forma di depauperamento volontario, se non si trova il modo di farsi dare altri tipi di ricavi dalla Rete». 
Le casse di Rimini, Cesena e San Miniato. Siete interessati o è una partita tutta francese? 
«Ora siamo concentrati sulle “nostre” tre banche. Poi si vedrà». 
L’oro della Popolare dell’Etruria vi interessa? 
«Ci sono due ori dell’Etruria. C’è una parte di trading e una di supporto al business. A noi piacciono le cose industriali, nel senso che ci interessa la parte del business collegata all’industria dell’oro». 
Dal suo osservatorio, come appare l’economia italiana? 
«Sono ottimista, emergono segnali positivi: il primo è la diminuzione secca dei nuovi crediti problematici; poi i consumi interni, che ci sono. Una serie di aziende sono migliorate. Abbiamo un saldo dell’export che è fantastico, nel 2016 tra i più elevati nel mondo. Perché non cresciamo di più? C’è il grave problema del tasso demografico negativo. La demografia è un fattore del tutto sottovalutato».