Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  marzo 27 Lunedì calendario

I giovani che cercano lavoro. Più passione, meno carriera

Pessimisti sulle chance di trovare lavoro privilegiano però le proprie passioni rispetto agli sbocchi professionali. Gli studenti delle scuole superiori appaiono così secondo la fotografia scattata da AstraRicerche che ha intervistato più di 800 ragazzi tra i 17 e i 19 anni per «Gli studenti e il lavoro che cambia», un’indagine commissionata da Manageritalia. Se il dibattito sul lavoro, come dimostra la vicenda dei voucher, continua a essere incentrato quasi esclusivamente sui dispositivi di legge che lo regolano, minore attenzione si dedica ai mutamenti culturali. Li si snobba e invece è necessario monitorare costantemente gli slittamenti della cultura del lavoro per capire meglio come intervenire e orientare le scelte.
Dicevamo del pessimismo: i ragazzi intervistati, con una maggioranza schiacciante del 75%, si attendono un incremento dei giovani che emigreranno per cercare lavoro, solo il 36,5%, però, si aspetta in parallelo un aumento della disoccupazione giovanile in Italia, mentre il 40% crede che diminuiranno in Italia «i salari d’ingresso», le retribuzioni del primo lavoro.
Di fronte a questi scenari, secondo i ricercatori, ci si sarebbe potuto aspettare che le scelte relative al percorso di studio fossero diventate più pragmatiche, più indirizzate a massimizzare la possibilità di trovare lavoro. E invece no, «regna l’incoerenza». Il percorso di studi è scelto in base alle proprie capacità e preferenze piuttosto che scommettendo sugli sbocchi professionali. Il 54,7% si fa guidare «molto» dalle proprie passioni e solo il 37,2% guarda «molto» alla possibilità di trovare lavoro. Chiude il cerchio la percentuale bassa (27,1%) di coloro che confidano sulle esperienze lavorative fatte durante tutti gli studi grazie alla scuola. Annotano ad AstraRicerche: «La passione conta di più della remunerazione o della garanzia di lunga durata, si desidera soprattutto un lavoro coerente con le proprie inclinazioni».
Pesa certamente nei giudizi dei ragazzi la mancanza di un orientamento – o di una tutorship – che sappia mettere in equilibrio passioni e capacità con il mercato del lavoro e che riesca ad arbitrarle motivando i ragazzi. Il tema ovviamente non è nuovo e ha generato due fenomeni paralleli: a) l’addensamento di laureati in discipline che hanno pochi sbocchi e all’opposto la carenza di dottori nelle discipline scientifiche; b) il cosiddetto mismatch, ovvero un mercato del lavoro che chiede tecnici specializzati e una scuola che non ne produce. I ritardi nell’implementare le esperienze di alternanza studio-lavoro pesano molto e determinano la differenza (negativa) del nostro sistema formativo rispetto ad altri Paesi europei.
Il campione degli intervistati si frammenta quando deve indicare le caratteristiche desiderate per il primo lavoro: si desiderano le sfide, l’impegno, la varietà di luoghi e tempi ma si chiede anche che il lavoro sia sereno, non stressante e lo stesso per molti anni, senza numerosi cambi di azienda. Un aspetto preoccupante, per Manageritalia, è la scarsa conoscenza di alcuni trend su cui si incentra il dibattito pubblico: il passaggio dal lavoro subordinato a quello autonomo, la retribuzione legata anche agli obiettivi raggiunti, la forte diminuzione della formula «una vita, una azienda». Anche sulle competenze utili per stare nel nuovo mondo del lavoro c’è molto da monitorare e orientare: per metà del campione le conoscenze informatiche non sono fondamentali e nessuna soft skill (adattamento, soluzione di problemi, creatività) è ritenuta necessaria da più di un intervistato su due. E l’attribuzione a se stessi delle competenze proposte è anch’essa pessimista: i giovani ammettono di avere lacune ampie e diffuse.