la Repubblica, 23 marzo 2017
L’amaca
«Incubo terrorismo» e «panico a Westminster» erano moneta corrente, in alcune delle breaking news di ieri, mentre le immagini mostravano gente composta che soccorreva le vittime e metteva in atto misure di sicurezza e controllo già sperimentate. L’uso della parola “incubo” per definire la oramai ordinaria e per niente onirica presenza, nelle città europee, di bande di assassini jihadisti; e della parola “panico” per definire lo stato d’animo di una intera metropoli dolente, ma perfettamente in sé; non è solo un problema linguistico. È un problema politico. Fino a quando ogni ossesso armato di coltello e gippone sarà definito “incubo”, come nei trailer dei film horror, il risultato sarà ingigantirne la forza d’urto, ingigantendo al tempo stesso il potere di ricatto del terrorismo. Bisognerà pure accettare l’idea che da molti anni il mondo è in guerra (perfino “in casa nostra”, concetto che ripetiamo con incorreggibile sgomento), che le guerre producono vittime e che, quando sia impossibile evitarle, è necessario combatterle con dignità e intelligenza. I nostri liberi media sono un punto di forza, rispetto al nemico liberticida; ma se producono un ululato cubitale ogni volta che l’Europa viene colpita (e accadrà ancora), rischiano di diventare un punto di debolezza. Lo specchio della nostra paura.