Corriere della Sera, 20 marzo 2017
I cinesi inventarono la carta. Poi Fabriano la reinventò
Nel novembre 2014, l’Unesco inserì la washi, la carta giapponese fatta a mano, nella «Lista del patrimonio culturale immateriale che merita di essere urgentemente salvaguardato». Lo stesso giorno dell’annuncio, a Pechino, un cartaio quarantenne di nome Gong Bin, molto conosciuto in Cina come produttore di una speciale carta usata dagli artisti e dai laboratori che riparano libri antichi, si ferì volontariamente al volto con una lama, che gli ha lasciato vistose cicatrici. «Questo è un giorno di umiliazione per la Cina: abbiamo perso la faccia», disse motivando il suo gesto.
È uno dei tanti, meravigliosi aneddoti che affollano l’ultimo libro di Mark Kurlansky, il giornalista e autore americano specializzato nei grandi affreschi che partono da un semplice dettaglio. Pubblicato in Italia da Bompiani, Carta. Sfogliare la storia segue il geniale canovaccio già sperimentato con Sale. Una biografia (Rizzoli) e Merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo (Mondadori): Kurlansky volge la sua attenzione su un oggetto umile ma indispensabile della vita quotidiana, per raccontare una grande storia della civiltà umana, esplorando in che modo quella cosa ha cambiato e influenzato le vicende mondiali.
Sono passati più di duemila anni e due secoli, da quando i cinesi (anche se prima di loro potrebbero averlo fatto le civiltà mesoamericane, come quella degli Atzechi) scoprirono che le fibre vegetali (oggi note come cellulosa) battute, mescolate con l’acqua, ridotte in polpa e lasciate ad asciugare in uno stampo, davano vita a un foglio, un foglio di carta appunto, sul quale si poteva scrivere. Fu l’alba di una tecnologia che avrebbe rivoluzionato la storia.
Kurlansky mette però in guardia dall’errata convinzione che sia la tecnologia a cambiare la società. «È esattamente il contrario: è la società a sviluppare le tecnologie necessarie per affrontare i cambiamenti che stanno avvenendo all’interno di essa». Il libro abbonda di esempi: cinque secoli dopo che la carta era diventata di uso comune in Cina, i monaci buddisti in Corea sentirono anch’essi la necessità della carta, adottarono l’arte cinese e la portarono in Giappone per diffondere la loro religione. Nel 751 d.C. furono i prigionieri cinesi catturati nella battaglia di Talas, vinta dalle truppe musulmane venute da Samarcanda, a insegnare al mondo islamico l’arte cartaria: «Adepti delle scienze matematiche, astronomiche, del calcolo e dell’architettura, gli arabi videro la necessità della carta, iniziando a produrla in tutto il Medio Oriente, in Nord Africa, in Spagna».
Impiegò molto però, la carta, ad arrivare in Europa, fino a più di un millennio dopo la sua invenzione. Solo quando anche gli europei si aprirono alle scienze e iniziarono a espandere l’alfabetizzazione, si accorsero che la pergamena, ricavata dalla pelle degli animali, era troppo costosa e lenta per un continente in preda alla febbre dell’umanesimo. I pionieri furono i cartai di Fabriano, che nel XIII secolo, grazie all’uso dei magli idraulici, della collatura animale, dei telai in ottone e delle filigrane, di fatto «reinventarono la carta», dando «un volto all’arte cartaria europea per i secoli a venire». I fabrianesi inventarono perfino il vocabolario del nuovo materiale, chiamando risma, dall’arabo razhma, il fascio nel quale raggruppavano i loro fogli.
Anche se con qualche approssimazione dal punto di vista storiografico, Kurlansky è al suo meglio nella micronarrazione. Dettagli succosi e sorprendenti. Nel Medioevo, per produrre una sola Bibbia in pergamena «occorreva macellare tra 210 e 225 pecore». Non solo una notazione di colore: furono la crescente domanda dello Zeitgeist, lo spirito del tempo e il fermento delle idee, a spingere per una tecnologia che consentisse una riproduzione di libri e documenti più veloce e su vasta scala e che portarono Gutenberg nel 1455 a perfezionare la stampa a caratteri mobili, già esistente in Cina sin dal 1041.
Ancora, nel XVIII secolo in Francia i 10 mila lavoratori delle cartiere (ce n’erano 750 sparse nel Paese) erano un’aristocrazia operaia: godevano di privilegi come bonus in denaro in occasione di matrimoni, nascite e lutti; potevano allontanarsi dal lavoro per andare all’osteria, mangiare grasso in un giorno di magro e dovevano essere serviti con cibi speciali in certe date, come orecchie di maiale il martedì di Carnevale, ciambelle la domenica delle Palme, una carpa il Venerdì Santo.
Contava, la qualità della carta. Anche al costo di qualche storico paradosso. Quando le colonie del Nord America in rivolta lanciarono il boicottaggio delle merci inglesi, l’unica eccezione la fecero proprio con l’ottima carta prodotta nelle cartiere londinesi: nel 1776 i padri fondatori usarono carta inglese per stampare la Dichiarazione d’indipendenza. E poi il rapporto tra la carta e gli artisti: da Leonardo da Vinci, che lasciò solo quindici dipinti, ma 4 mila lavori su carta, a Matisse, che nell’ultima fase della sua attività creativa lavorò solo su carta con i celebri Papier découpés.
La parte finale del libro di Kurlansky, lettura piacevole e avvincente, è dedicata alla madre di tutte le domande: sparirà la carta nel mondo sempre più digitale? Quesito esistenziale per chi lavora nei giornali, ma non solo. In realtà, in un contesto dove molte invenzioni stanno rimpiazzando l’uso della carta, questo materiale si sta riscoprendo straordinariamente flessibile e utilizzabile in sempre nuovi impieghi. Non è solo per orgoglio nazionale che la Cina moderna ha perseguito e centrato l’obiettivo di tornare a essere, come all’epoca della dinastia Han, il più grande produttore di carta del mondo, anche se ha dovuto subire l’affronto di non produrre più quella migliore, che ha spinto Gon Bin a sfregiarsi. Forse leggerete questo pezzo anche online, ma la carta è destinata a rimanere con noi.