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 2017  febbraio 28 Martedì calendario

Quegli insulti tra giocatori e arbitri: un degrado culturale

Investimenti da brividi, progetti di sviluppo impensabili, strutture avveniristiche e poi sul campo, di fronte a miliardi di telespettatori, ventidue calciatori, due panchine colme di specialisti e uno o più arbitri che si mandano reciprocamente a quel paese. Come minimo a quel paese e non è escluso che a questo scambio partecipino anche i fischietti. Basta saper leggere, alla tv, le parole che escono di bocca. Certo parte del tempo passa senza offese: in questo caso la comunicazione si realizza con il calciatore che chiama l’arbitro con un suono come «aooh», ad alto volume. Inizieranno le risposte di pari qualità? Eppure sono uomini che s’incontrano e s’incontreranno decine di volte, per produrre attimi di felicità, e non riescono a parlarsi con rispetto, quasi con stima come dovrebbe succedere. Sul campo chiamare il calciatore per nome è il primo passo per ricevere un’attenzione privilegiata; anche all’arbitro piace essere riconosciuto dal giocatore. Nessuna regola è stata infranta: è pura educazione. Non parliamo poi delle proteste di massa, presenti anche in Europa: mai come in Italia. Proteste per il rigore dato, ma anche per quello non dato, per la simulazione, per il fallo tattico con pronto invito al giallo da parte dell’avversario, e tanti altri casi. Cosa dobbiamo fare per combattere questo degrado culturale? Pugno di ferro? Giallo a ogni cenno di protesta? Questi metodi sono già falliti, come stiamo vedendo. Serve uno sforzo di tutti per riconoscere i diritti dell’altro, nei 90 minuti. Ognuno ha la possibilità di trovare la sua soluzione, anche quella di evitare la mischia, di far passare qualche secondo prima di perdere la faccia di fronte al mondo, di resistere all’ira dell’ignoranza. Riconoscere che il calcio vero è cultura; è crescita prima di tutto.