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 2017  febbraio 27 Lunedì calendario

«Cosa guarda un’azienda? Così si fa un curriculum». I consigli della docente di comunicazione. Intervista a Michèle J. Favorite

«L’Italia è tra i Paesi con i tassi di skills mismatch più alti del mondo», ci sono migliaia di posti di lavoro che restano vacanti perché gli aspiranti lavoratori scrivono curricula sbagliati, inefficaci. Michèle J. Favorite ha studiato ad Oxford e oggi è docente di Comunicazione aziendale e Relazioni pubbliche all’Università John Cabot. Domenica aprirà “WoW! Woman is noW”, un talk di donne organizzato da HiTalk in Campidoglio, a Roma. Spiegherà qualche “trucco” e pure che i leader politici italiani hanno molto da imparare: «La gente vuole sapere “cosa c’è dietro” il partito, il marchio, l’azienda: coi social network potrebbero riconquistare fiducia». 
La crisi ha diminuito i posti di lavoro, c’è sovrabbondanza di offerta. Quali sono le cose giuste da fare se si sta cercando un lavoro o se ne vuole uno migliore? 
«Sfatiamo un mito. È vero che c’è stata una grande crisi e molta gente è a spasso, ma, allo stesso tempo, ci sono pure moltissime offerte di lavoro che restano insoddisfatte perché chi cerca un lavoratore non trova quello con le caratteristiche giuste». 
Non è così nel resto d’Europa? 
«No. La Commissione Europea nel 2016 diceva che l’Italia è tra i Paesi europei col tasso di skills mismatch più alti. Non c’è correlazione tra attitudini e caratteristiche richieste dalle aziende e quelle offerte dai lavoratori. Per McKinsey il 42% delle imprese italiane ritiene che i giovani non siano preparati adeguatamente». 
La colpa è anche di chi si “offre”? 
«Spesso il lavoratore non si sa “declinare”, eppure il mondo del lavoro cambia velocemente e richiede competenze che non abbiamo studiato». 
Dove e come si comincia la ricerca di un nuovo lavoro? 
«La prima cosa è chiarirsi le idee su quello che si va cercando. Poi bisogna tentare di capire cosa vuole chi che offre un lavoro. Se non si cerca in maniera mirata o ci si offre senza corrispondere alle esigenze di colui che cerca, non scatta il match tra domanda e offerta, è solo tempo perso». 
Uno, di solito, ci prova. E manda curricula a pioggia. È un errore? 
«Grave. Chi cerca deve ricordarsi che la sua offerta dovrebbe essere indirizzata a risolvere un problema di una azienda. Per questo bisognerebbe bandire il curriculum generico». 
E come va scritto il curriculum, allora? 
«Ne serve uno personalizzato, focalizzato sulle esigenze dell’azienda alla quale ci si rivolge. Ciascuna ha esigenze diverse. Ha più possibilità di trovare un posto soddisfacente chi manda dieci curricula mirati piuttosto di chi ne manda cento di uno generico». 
Come si esce dalla “genericità” di una richiesta? 
«Anche la stessa posizione di due aziende diverse necessita di capacità, caratteristiche ed esperienze diverse. Il responsabile vendite di Google è diverso da quello che, per esempio, che può fare lo stesso lavoro a Libero.... Il curriculum deve essere ricamato su quella azienda e sulle sue esigenze». 
Quanto deve essere lungo? Una paginetta o tante, dettagliate? 
«Deve essere molto snello e facile da scorrere. Statistiche dicono che in media chi fa selezioni dedica dieci secondi a ciascun curriculum. Bisogna curare inizio e fine, la formattazione». 
E i colori? Si possono usare? 
«Dipende dal lavoro che si cerca. Sicuro va bandito il curriculum europeo, che ha un formato prestabilito, appiattisce tutto e tutti». 
Quanto è giusto imbrogliare? Cioè, è meglio sopravvalutare, per esempio, le proprie competenze linguistiche? 
«Mai imbrogliare. Prima o tardi se ne accorgeranno si farà una figuraccia e forse si verrà pure licenziati: se un lavoratore ha fornito informazioni false o difformi alla realtà, può capitare». 
Le aziende controllano i profili social dei candidati. Cosa è giusto pubblicare e cosa no? 
«Prima di investire in una risorsa, le aziende guardano vita, morte e miracoli di una persona attraverso i social. Una foto sbagliata può costare cara». 
È meglio avere o non avere un profilo su Facebook o Twitter? 
«Affatto. Se uno ha saputo crearsi una immagine digitale positiva, questo può essere un punto a suo favore. La scelta dei social dipende dalle esigenze. Linkedin andrebbe sempre fatto. Io, per esempio, suggerisco pure di aprirsi un sito personale». 
Addio privacy. 
«La privacy è un concetto obsoleto. Questo è quello che stanno facendo i manager innovativi in America. Hanno capito che la loro reputazione va creata e gestita in gran parte sui social. Dieci anni fa si riteneva che il valore di un’azienda fosse per l’80% definito da fattori tangibili, oggi il valore è dato da fattori intangibili e la reputazione è una parte integrante di questo valore». 
I social stanno cambiando il mondo. Si dice che Donald Trump abbia vinto grazie alla Rete. È così? 
«Prima di lui, Obama vinse nel 2008 grazie ad un uso innovativo di Facebook, che gli gestiva un ragazzo di 22 anni. Fu il primo al mondo a capire che Facebook poteva essere usato come uno strumento di marketing. Prima lo usavano soltanto per le fotografie e i commenti. Le aziende hanno seguito l’esempio della politica». 
Non è durato molto quell’effetto. 
«Hillary Clinton non è riuscita a fare lo stesso, a trascinare su Fb». 
Trump è considerato il numero uno su Twitter. Perché? 
«Ha la capacità di mettere in soli 140 caratteri anche due o tre argomenti esplosivi, che diventano virali, raggiungono milioni di persone». 
In Italia si distinguono Salvini, Renzi, Meloni... Ma con altri numeri. Perchè? È colpa dei messaggi? 
«I politici, come le aziende con l’eccezione di due o tre in Italia arrancano sui social rispetto al resto d’Europa. Molti dicono che funziona solo il populismo, ma non è vero: i più efficaci non sono quelli che urlano, ma quelli che sanno raccontare una storia credibile e crearsi una immagine trasparente e autentica, a 360 gradi». 
Dovremo aspettarci politici che si fanno selfie dentro al letto, per mostrare come e dove vivono, con chi dormono? 
«Magari non fino a questo punto. Ma il consumatore, così come l’elettore, ormai non crede più in niente, nessuna istituzione, vuole sapere “cosa c’è dietro”. Chi tra i leader sarà capace di mostrare attraverso i social media la sua storia e i suoi valori, senza mostrarsi ingessato, ne guadagnerà». 
Quale dei modelli citati sopra può essere quello vincente? 
«Nessuno. Il migliore nel costruirsi una immagine digitale è da sempre Richard Branson, capo di Virgin». 
Branson pubblica le foto della sua famiglia, è un manager super social. 
«La reputazione personale dell’amministratore delegato incide per 50% sulla reputazione totale dell’azienda e per il 44% sul valore di mercato». 
I profili con più follower al mondo sono di donne. Domenica, alla Protomoteca del Campidoglio, aprirà “WoW! Woman is noW” con una lezione. Che dirà alle donne? 
«A non vergognarsi della loro femminilità e di essere madri. Qualcuna ha reticenze che sono emerse anche nell’ultima edizione di HiTalk, organizzato da Akiko Gonda e Marie Gabrielle De Weck. Al contrario, gestire una famiglia, insieme al lavoro e alla casa, dimostra capacità di gestire situazioni complesse. Eppoi che il lavoro femminile non è solo una questione di genere, la piena occupazione produrrebbe un valore aggiunto pari a 12 trilioni di dollari all’economia globale».