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 2017  febbraio 23 Giovedì calendario

No all’aborto da sette medici su 10. Il boom della pillola d’emergenza

Da quasi 40 anni, fin dalla sua approvazione, la legge 194 prevede all’articolo 9 che «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare» gli «interventi di interruzione della gravidanza» e questo «anche attraverso la mobilità del personale». È la prima volta però che una Regione pone come criterio per l’assunzione stabile di personale la disponibilità a praticare aborti. In un Paese dove la media di ginecologi obiettori è del 70%, che sale all’80% nell’Italia meridionale con punte dell’85,9% in provincia di Bolzano, dell’88,1% in Basilicata, dell’89,1% in Sicilia e dell’89,7% in Molise (e dove spesso obiettano anche gli anestesisti), di solito si ricorre ai cosiddetti «gettonisti».
Medici esterni, pagati a prestazione, che effettuano le interruzioni di gravidanza a cui i collegi assunti obiettano. Con un costo notevole per il sistema sanitario: solo in Lombardia, dove pure la percentuale dei ginecologi obiettori è sotto la media nazionale, con il 69,4%, solo nel 2014 sono costati 255.556 euro (lo ha calcolato il Pd lombardo). Un dato nazionale non c’è, ma moltiplicato per 20 regioni potrebbe fare svariati milioni di euro.
Intanto l’Italia non tutela il diritto alla salute delle donne – lo ha stabilito un anno fa il Consiglio d’Europa sulla base di un ricorso della Cgil – perché non garantisce un accesso adeguato all’interruzione di gravidanza (anche per la mancata sostituzione dei medici non obiettori durante le assenze per ferie o malattia) e discrimina il personale sanitario che pratica gli aborti. In Gran Bretagna, per fare un confronto, i medici obiettori sono solo il 10%, in Francia il 7%, in Svezia addirittura lo zero per cento.
Da Strasburgo è arrivato anche un richiamo al governo, alle Regioni e agli ospedali: secondo il Consiglio d’Europa le misure adottate finora per far fronte alla situazione sono inadeguate.
Eppure nel 2015 rispetto ad anni di immobilismo qualcosa è cambiato: lo si deve all’Agenzia nazionale per il farmaco (Aifa) che ha eliminato per le maggiorenni l’obbligo di ricetta per la pillola «ellaOne». Si tratta non di un farmaco abortivo, come spesso si ritiene, ma di un anticoncezionale d’emergenza che può essere assunto fino a 5 giorni dopo il rapporto a rischio. Alcune medici di base facevano «obiezione» anche a quello. E la prescrizione obbligatoria rendeva più difficile procurarselo in tempo. Fatto sta che le vendite sono schizzate: da 7.796 confezioni nel 2012, a 16.796 nel 2014 a 145.101 nel 2015. Questo incremento, ha spiegato a dicembre la ministra della Salute Beatrice Lorenzin nella relazione sull’attuazione della legge 194, «potrebbe essere almeno in parte collegato» al netto calo di aborti registrato proprio nel 2015: circa il 10% in meno dell’anno precedente.
Sono stati 87.639 contro i 96.578 del 2004 e meno della metà che nell’anno dei record, il 1983, in cui si erano registrate 234.801 interruzioni volontarie di gravidanza (Ivg). «Diminuzioni percentuali particolarmente elevate – spiega il rapporto del ministero – si osservano in Abruzzo, Molise, Calabria e Piemonte e in generale nel secondo semestre del 2015» (l’obbligo di ricetta è stato tolto ad aprile). Il risvolto negativo è che se la diffusione di un anticoncezionale di emergenza incide così tanto sul numero degli aborti significa che si fa ancora troppo poco per prevenire le gravidanze indesiderate.
In generale però tutti gli indicatori confermano la tendenza al calo: il tasso di abortività (numero di Ivg per 1.000 donne tra 15 e 49 anni) è stato del 6.6 nel 2015 (-8.0% rispetto al 2014 e -61.2% rispetto al 1983). Anche tra le donne straniere, che pure abortiscono di più delle italiane, il tasso di abortività è passato dal 19 per mille del 2013 al 17, 2 del 2014 (ultimo dato disponibile).