la Repubblica, 17 febbraio 2017
Ma per i grandi giornali che «svelano» il Potere è una nuova primavera
WASHINGTON Schiacciato dalle tirature, assediato dai Social Network, insolentito dal capo dello Stato, il giornalismo di carta, di investigazione e di sfida vive una nuova primavera, proprio grazie a quel Trump che lo insulta.La legge delle “conseguenze inaspettate” è scattata provocando l’effetto paradossale di avere rivitalizzato quelle nobildonne decadute come Washington Post, New York Times e Wall Street Journal che Trump cerca di screditare, come ha fatto anche ieri in conferenza stampa, rovesciando quanto era accaduto nella campagna elettorale. Con i loro quotidiani attacchi editoriali intinti nel disprezzo, i grandi giornali e le network avevano accreditato l’immagine di un candidato anti establishment, tutto “Popolo e Patria”. Ma ora con i suoi quotidiani insulti ai «very, very dishonest media», ai media molto molto disonesti, Trump sta restituendo il favore.
Il primo risultato di questo duello che per i “Mainstream Media”, gli organi di informazione tradizionali può significare la rinascita o l’ultima carica, è di avere negato a Trump qualunque parvenza di “luna di miele”, di quel periodo di sospensione delle critiche e di attesa che in passato era stato concesso ai nuovi inquilini della Casa Bianca. Il presidente ha voluto la guerra e guerra ha avuto e finora la “Luna d’Aceto” sta favorendo i suoi avversari. Dopo anni di crescente irrilevanza, i grandi quotidiani stanno tornando a essere il canale di rivelazioni, fughe di notizie, scandali che hanno scosso un’Amministrazione costretta a contraddirsi, a “dimettere” collaboratori importanti come il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Mike Flynn, a ritirare nomine ministeriali come il Segretario del Lavoro Pudzer, già denunciato per violenze alla moglie e pizzicato a impiegare immigrati senza documenti nelle sue catene di fast food. E aumenta il sentimento di dilettantismo e caos che questa presidenza sprigiona.
I giornalisti della carta stampata e delle edizioni online dei grandi giornali sono tornati a scavare giorno e notte nelle miniere di malumori e di veleni che giacciono sotto la “Casa del Caos”. Ricompare sugli schermi dei talk show Carl Bernstein, l’invecchiato giovanotto che con Bob Woodward sgretolò Richard Nixon dalle pagine del Washington Post, per spiegare ai giovani cronisti e alle scatenate croniste di oggi come funziona il lavoro della talpa giornalistica, per insinuarsi nei tunnel della burocrazia washingtoniana, dove, diceva Reagan «il suono corre più veloce della luce». Il New York Times, la “Dama in Grigio” che più di tutte le testate aveva masticato l’amaro di un declino che sembrava irreversibile e che Trump definiva sempre «il fallimentare New York Times», conosce un boom di abbonamenti alla sua edizione online a pagamento, 300mila in più nell’ultimo trimestre con un aumento della pubblicità incoraggiante, più 15 per cento.
Lo stesso “Trump Bump”, la spinta di Trump, che ha portato programma di satira come Saturday Night Live a record di ascolti, la Borsa a livelli mai raggiunti, le manifestazione di strada a folle non più viste dagli anni ’70, la magistratura a imbrigliarlo, regala 62,4% di abbonamenti in più alla catena Gannet, che pubblica USA Today, 115 mila al Wall Street Journal. Porta a 700 mila gli abbonamenti al Financial Times, che pubblica edizioni americane in Rete come in edicola. E se i ricavi della pubblicità online sono soltanto una frazione, spesso non più del 10 per cento, degli introiti che le vecchie pagine riversavano, il grande malato del giornalismo classico ha almeno preso, grazie a “President Orange” il proverbiale brodino del convalescente.
Lentamente, lo stato maggiore del presidente, che comprende celebri autori di falsi e di propaganda di ultradestra come Steve Bannon, comincia a rendersi conto dell’indesiderato effetto collaterale dell’ossessione trumpista per il giornalismo vero. «La stampa è il vero partito di opposizione», proclama Bannon, il Rasputin che governa a fianco del presidente e la stampa si sente investita da un compito non più soltanto commerciale, ma costituzionale. Quello di tornare a essere il “Quarto Potere”. Il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ridicolizzato dai comici per la sua evasiva e isterica rabbia polemica, rivoluziona la Sala Stampa davanti alla quale ogni giorno deve sottoporsi alle domande dei giornalisti e che il Capo segue secondo per secondo. Si protegge facendo accreditare, fra i 50 accalcati in quella piccola, scomoda, umida saletta costruita sopra la piscina che Franklyn Roosevelt usava per combattere gli effetti della poliomielite, una dozzina di persone pescate nei siti web più sfacciatamente trumpisti, ai quali dà la parola, preferendoli a reporter veri. Cadendo nel ridicolo, come alla domanda di una giovane rappresentante del sito DayCaller che chiede al portavoce, fra gli sghignazzi dei presenti, «quali siano le priorità della sua Presidenza». Domanda feroce.
Quanto durerà questo revival del giornalismo alla maniera del Watergate, quanto forte sia il risveglio di una stampa che negli otto anni di “No Drama Obama” si era assopita nella routine delle banalità e nella simpatia per il presidente in carica, dipenderà dalla capacità dell’Amministrazione di mettere il tappo alle sgocciolio di rivelazioni che colano specialmente dal mondo dell’Intelligence e del Controspionaggio. Quel mondo dal quale sono venute le informazioni sui rapporti fra il Team Trump e il Team Putin che tanta furia e tanto imbarazzo stanno provocando. Qualsiasi reporter vale soltanto quanto le sue fonti, ma l’Effetto Trump sta rivitalizzando un albero che languiva.
E sta dimostrando, per ora, che le notizie sulla morte del giornalismo erano, come Mark Twain avrebbe detto, «grandemente esagerate».