Corriere della Sera, 6 febbraio 2017
Quando «Carosello» mascherava la pubblicità da spettacolo innocente
Sessant’anni fa, il 3 febbraio 1957, quando andò in onda per la prima volta «Carosello», l’Italia era solo un’Italietta. Ammaccata dalla guerra, povera, poco scolarizzata, stampellata dal Piano Marshall, non sapeva ancora che di lì a pochi anni avrebbe ricevuto la scossa vitale di un miracolo, cui i giornali appiccicarono subito l’epiteto di «economico».
Rai Cultura ha raccontato la storia di «Carosello» con molta nostalgia ma non ha detto che la Rai dell’Italietta si vergognava di «Carosello». Lo so che oggi appare un paradosso, e non sono qui per fare la morale. La Rai delle origini si vergognava di trasmettere la pubblicità, un’occasione redditizia ma poco appropriata all’idea di una tv pedagogica. A quell’epoca si pensava che la pubblicità fosse una cattiveria dei persuasori occulti e che avviasse il pubblico sulla cattiva strada del consumismo.
«Carosello» nacque dunque come «recinto dorato», come spot mascherato da show, tanto che il nome del prodotto si poteva nominare solo nel codino finale. Insomma i pubblicitari erano ritenuti dei loschi signori che avevano inventato tecniche manipolatorie. Bisognava porre una cintura di sicurezza, mascherare la pubblicità da spettacolo innocente, adatto soprattutto ai bambini.
Fuori da quel recinto era proibito dare consigli per gli acquisti. Ma questo non è l’unico paradosso legato alla trasmissione, per dire che anche nella storia della tv la «felix culpa» scombina i piani più saldi. La fama di «Carosello» è costruita su un secondo grande equivoco che consiste nel considerare le restrizioni temporali del «recinto» come un limite.
Le sue invenzioni linguistiche, le sue frizzanti sintesi narrative, i suoi ritmi sono nati invece dal fatto di dover comprimere in pochi secondi messaggi convincenti, storie di senso compiuto, componimenti liricizzanti. La Rai ci ha messo vent’anni per liberarsi da questa «vergogna», per poi tramutarla in un mito.