Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  gennaio 24 Martedì calendario

L’amaca di Michele Serra

E il lavoro, ridotto all’osso dalla rivoluzione tecnologica, non sarà più in grado di garantire la sopravvivenza, il salario di cittadinanza (o comunque lo si voglia chiamare) presto o tardi diventerà una necessità. Così dicono in molti, compreso il neo-socialista Hamon che ha appena vinto il primo turno delle primarie in Francia; ed è molto probabile che abbiano ragione.Ma non è il vincolo tra lavoro e sopravvivenza, quello che sarà difficile sciogliere. È il vincolo tra lavoro e identità. Riuscite a immaginare un mondo nel quale la propria fisionomia individuale e sociale non sia anche il frutto diquello che si è capaci di fare? Io no. Sono cresciuto nel mito del “lavoro ben fatto” dell’operaio Faussone (Primo Levi, “La chiave a stella”). Il mito del mestiere, dello specifico talento professionale, della destrezza manuale e intellettuale con la quale si impara il governo delle cose. Una eventuale società di assistiti, nella quale il “lavoro ben fatto” diventa appannaggio di pochi privilegiati, non sarebbe forse una società di depressi, anche se con la pancia piena? È solo una domanda. Invidio chi riesce a immaginare un futuro migliore, con il ronzio dei robot onniscienti e onnifacenti che ci liberano da ogni fatica. Che noia, comunque.