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 2017  gennaio 18 Mercoledì calendario

Sterlina, peso, lira e un destino (quasi) comune

Sterlina britannica, peso messicano e lira turca: accostare queste divise appariva impensabile fino a qualche tempo fa. Eppure, se si sovrappongono gli andamenti di queste valute nei confronti del dollaro negli ultimi 12 mesi si notano ben poche differenze, come si vede nel grafico a fianco. Certo, i problemi che hanno indirizzato i cambi nella stessa direzione sono differenti: le tensioni politiche e un Paese sotto scacco del terrorismo quando si parla della Turchia, la realizzazione dell’incubo peggiore – ovvero l’elezione di Donald Trump – se ci si riferisce al Messico. 
A questi la sterlina ha risposto con l’imprevedibile (almeno un anno fa di questi tempi) Brexit, e il risultato è appunto più o meno lo stesso: -15% sul dollaro in un anno. Sostenere che il Pound di Sua Maesta possa essere ormai considerato alla stregua di una valuta emergente ovviamente è una forzatura, se non proprio una provocazione, e il forte rimbalzo dopo la conferenza stampa di ieri di Theresa May che a sua volta ha seguito l’ennesimo crollo del giorno precedente (una sorta di sell on rumor, buy on news) invita ancora di più alla prudenza.
«Al di là dei toni decisi utilizzati dal Primo ministro, la realtà è che si dovrà comunque passare dal Parlamento prima di prendere qualsiasi decisione e questo spiega in parte anche la reazione di ieri del mercato», sottolinea Antonio Cesarano, strategist di Mps Capital Markets, che si aspetta ulteriori tensioni nella prima parte dell’anno, ma poi prevede un recupero della sterlina «una volta che si avrà maggiore chiarezza su quale sarà il processo di Brexit che il governo porterà avanti» e indica un possibile obiettivo di 0,83 euro a fine 2017. 
Con un sentiero di uscita dall’Unione europea ancora tutto da tracciare è però del tutto evidente che le incognite sulla sterlina a medio lungo termine siano a dir poco elevate e che gli analisti siano quindi disorientati. Il direttore della ricerca di Etfs securities, James Butterfill, ieri a Milano per illustrare il suo outlook annuale su valute e commodity, ha riconosciuto sì che la sterlina «ha forse reagito eccessivamente negli ultimi tempi», soprattutto in occasione dell’episodio del flash crash, il corto circuito improvviso alimentato dagli algoritmi automatici che ha fatto piombare il cambio a inizio ottobre. Ma ha anche ammesso che «non si vedono al momento margini significativi di apprezzamento» e che nel futuro meno immediato «tutto dipenderà dall’impatto che il distacco dall’Unione avrà sul commercio internazionale, sulla crescita e sull’inflazione».Il quesito iniziale resta però sul tavolo: la Brexit ha ridotto davvero la sterlina a una valuta di un Paese emergente qualsiasi, come sostenuto anche di recente da un noto hedge fund? «Se sembra un’anatra, nuota come un’anatra e starnazza come un’anatra, allora probabilmente è un’anatra», ci ricorderebbe un popolare test induttivo, ma qualche differenza significativa fra Gran Bretagna, Messico e Turchia ovviamente esiste. Non fosse altro perché se le sorti di questi ultimi due Paesi – in quanto emergenti – e delle loro valute sono in definitiva legate a doppio filo alla politica commerciale e monetaria degli Stati Uniti, il Regno Unito ha comunque la forza e la possibilità sufficiente a decidere in modo autonomo il proprio destino economico. E, all’occorrenza, anche di suicidarsi.