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 2017  gennaio 17 Martedì calendario

Diamante per sempre (anche nel portafoglio)

Diffidare dal rischio zero. E sospettare di chi offre rendimenti troppo sopra la soglia dello zero. Almeno di questi tempi. Parliamo di prudenza e ci occupiamo di diamanti. Un ossimoro? Cosa c’è di più lontano del luccichio dei diamanti dalla pacatezza dell’investitore oculato? Eppure le antinomie sono sale della vita e la cura di ogni mercato.
Iniziamo da qui. Dal mercato. La compravendita di diamanti da investimento insomma di quelli che non devono finire incastonati nella parure di mogli o amanti pur rappresentando nel 2016 un fatturato di circa 700 milioni di euro in Italia (a fronte di un fatturato globale di 4 miliardi nel mondo), valore che ha più o meno raddoppiato quello dell’anno prima, difficilmente può essere definito un mercato finanziario. Almeno se per mercato finanziario intendiamo un ambiente di scambio in cui la compravendita di titoli fissa quotidianamente un prezzo entro un coacervo di regole precise.
UN BENE SENZA CONFINI
Il bene – il diamante – è in sé un oggetto perfetto, un’opera d’arte della natura, riconoscibile e apprezzabile ovunque, senza confini geografici o linguistici. Eppure complesso fin dalla sua catalogazione. Le quattro C creano la griglia di prezzo: colour (il colore), clarity (la purezza), cut (il taglio), carat (la caratura, il peso). Chiedersi quanto costa un diamante al carato è già, forse, una domanda inappropriata.
Il listino internazionale Rapaport nulla di più lontano da un listino di Borsa, figlio dell’intuito e del potere negoziale del signor Martin Rapaport che dagli anni Settanta detta i valori di riferimento contiene circa 16 mila tipologie di pietre-diamante. È utile confrontarlo con i prezzi di compravendita al dettaglio?
La domanda è legittima ma la risposta, se deve essere seria, è difficile. L’attenzione sul mercato dei diamanti da investimento in Italia è esplosa da quando alcune società specializzate, fondamentalmente due, Dpi (che vale più o meno i due terzi del mercato italiano) e Idb, hanno trovato nel canale bancario (Intesa Sanpaolo, Mps, Bper e Unicredit le principali)una modalità distributiva che rassicura la clientela in cerca di diversificazione degli investimenti.
LA TRASPARENZA DELL’IVA
«Il diamante è un bene rifugio. Da comprare e da dimenticare per dieci anni in cassetta di sicurezza», sostiene Maurizio Sacchi, presidente e amministratore delegato di Dpi, da quasi trent’anni l’animatore del mercato in Italia e da dieci anni agente attivo della partnership con le banche. Questa alleanza ha fatto esplodere il business, marginalizzando i gioiellieri, che accusano i nuovi protagonisti di vendere i diamanti a prezzi più alti. Mentre i gioiellieri vengono spesso accusati di essersi abituati a margini cospicui di nero. Dpi espone con orgoglio i 108 milioni di Iva pagata negli ultimi quattro anni. Anche questa è trasparenza. «Eppure gli istituti di credito non spingono particolarmente questa strada, altrimenti avremmo ben altri volumi con la liquidità che circola aggiunge Sacchi noi per primi consigliamo di non mettere più del 5% del proprio investimento nel segmento diamanti. È una diversificazione, che se affrontata senza obiettivi speculativi assicura ottime soddisfazioni, pur a fronte di un rendimento che storicamente si attesta su un punto, un punto e mezzo sopra l’inflazione».
Insomma, investire in diamanti non fa arricchire. Ma la promessa è quella della sicurezza. Come l’oro? Più o meno. Più dell’oro per la sua stabilità, meno dell’oro per la sua impossibilità di essere oggetto di prezzo vero e certo. Un lingotto è un lingotto. Un diamante non è mai uguale a un altro. «L’approccio corretto non è chiedersi quanto costa il diamante al carato, ma quanto investo in diamanti. Il taglio di ingresso per noi continua Sacchi di Dpi è di 3.800 euro. Per un investimento di 10 mila euro offriremmo sempre almeno due pietre. Meglio le piccole dimensioni, sono più negoziabili».
Le diffidenze più volte evidenziate riguardano proprio il momento dell’acquisto e della vendita delle pietre. Poche settimane fa il programma d’inchiesta tv, Report, ha messo a fuoco il tema: all’acquisto sembra che il prezzo sia spesso quasi doppio di quelli indicati dal famoso listino Rapaport. Dpi e Ipb tentarono una replica ma, spiegano oggi, non vennero ascoltati.
ACQUISTO E VENDITA
La verità è che il prezzo di vendita non è confrontabile con il listino per più di un motivo: innanzitutto perché, come abbiamo detto, il Rapaport è un indicatore utilizzato tra operatori e grossisti, poi c’è l’Iva (da sola pesa il 22%) e c’è un contenuto di servizio (certificazione di qualità e di eticità circa la provenienza non da Paesi in black list, assicurazione, custodia, ecc.) che comprende la commissione che la banca chiede alla società venditrice. C’è però una commissione di vendita, che Dpi fissa al 10%. «A conferma del fatto che non vogliamo invogliare alcuna speculazione: la rivendita è un servizio continua Sacchi che noi realizziamo in 30 giorni dal mandato, ma che deve essere remunerato. Con l’apprezzamento dell’investimento abbiamo stimato che in tre anni dall’acquisto la remunerazione sul capitale è netta. E non c’è nemmeno la tassa sul capital gain pari al 26% da pagare. Però da noi tutto avviene in trasparenza». 
Il diamante non è un prodotto finanziario. È un bene fisico, come un immobile, un terreno, un’opera d’arte. «Il canale bancario potrebbe non essere l’unico conclude Sacchi perciò non escludo sviluppi su piattaforme web o con altri mezzi, ma oggi tramite la banca i nostri 100 funzionari possono assicurare certificazione, eticità, trasparenza e serietà. Un’opportunità in più per chi vuole proteggere il proprio capitale».