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 2017  gennaio 17 Martedì calendario

I nuovi assetti degli scambi internazionali

Quali saranno le politiche economiche di Donald Trump, nessuno ancora può dirlo. Il nuovo Presidente guarda alla Cina con diffidenza. In Europa gode di scarse simpatie, non necessariamente per il suo approccio alle politiche commerciali. Trump vuole davvero mettere in discussione la globalizzazione?
Le prime nomine parrebbero confermarlo: il segretario al commercio, Wilbur Ross, ha un approccio protezionista. Robert Lighthizer, il nuovo rappresentante del commercio (una specie di super-negoziatore alle dirette dipendenze della Casa Bianca), è fortemente anti-cinese. Trump non ama i trattati multilaterali: si presenta come il grande deal-maker, l’uomo che si sederà al tavolo e spunterà condizioni migliori. Il che però significa che al tavolo ha tutta l’intenzione di sedersi.Potrebbe quindi aprirsi una nuova stagione di accordi bilaterali fra gli Stati Uniti e gli altri Paesi. 
In questo scenario, è da vedere come la nuova amministrazione si rapporterà con l’Unione Europea, alla quale gli stati membri delegano la loro politica commerciale. La partnership transatlantica, il Ttip, si è arenata. Non c’è stato bisogno di Trump: i protezionismi europei (a cominciare dall’exception culturelle francese) hanno reso velleitario un progetto di trattato così vasto e ambizioso.Ma che accadrà ora se i primi a volere un’intesa bilaterale con gli Stati Uniti saranno gli inglesi, pronti a parare i possibili contraccolpi della Brexit? Gli altri stati europei resteranno alla finestra? Ci limiteremo a rimpiangere il fallimento del Ttip? Penseremo a rinsaldare altri rapporti, per esempio con la Cina?
È difficile immaginare un’Europa che guarda solo a Oriente, quale che sia il ruolo di imponenti infrastrutture come la nuova «via della seta», il treno Chengdu-Rotterdam. Il legame culturale che unisce America e Europa riverbera negli scambi e nelle abitudini, negli acquisti e nei desideri, delle persone, nelle collaborazioni che intrecciano come attori economici.Guardando le cose in prospettiva, non è alla latente tensione fra Usa e Cina che possiamo imputare la chiusura della stagione degli accordi multilaterali.
Com’è noto, grandi accordi non se ne fanno più dagli Anni Novanta: fallirono le conferenze internazionali di Seattle e di Cancùn, fallì, nonostante i ripetuti tentativi, il cosiddetto Doha Round.Lo scambio internazionale non passa necessariamente per accordi multilaterali. La prima grande fase di globalizzazione, nella seconda metà dell’Ottocento, era una trama di accordi bilaterali. I Paesi abbassavano vicendevolmente i vincoli doganali. Si desiderava un’economia più aperta per agevolare un migliore impiego dei fattori produttivi: un’economia più aperta consente una migliore divisione del lavoro. Più scambiamo, più ci specializziamo, più «cose» possiamo avere.
Ciò non è meno vero nel mondo di oggi. Se possibile, lo è di più perché lo scambio internazionale non riguarda solo beni che finiscono sugli scaffali dei supermercati: ma prodotti che servono a realizzarne altri. Timothy Taylor, sul suo blog «The Conversable Economist», lo ha ben riassunto in un dato. Se prendiamo le 2000 imprese americane che rientrano nell’1% dei maggiori esportatori, osserviamo che il 36% di esse fa anche parte dell’1% dei maggiori importatori. Simmetricamente, considerando le 1300 imprese che sono l’1% che importa di più, il 53% di esse è anche fra quelle che più esportano.«Esportatori» e «importatori» non sono dunque categorie mutuamente esclusive, esattamente come non lo sono «consumatori» e «produttori». Il commercio globale non è un risiko: ma un gioco cooperativo fra imprese e persone. Di questo, chi metterà mano a un trattato bilaterale, se davvero vorrà mettere a fuoco l’interesse nazionale, dovrà tener conto.