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 2017  gennaio 17 Martedì calendario

I tre campioni della laicità

Per comprendere che cosa è stato il nostro Paese nel secondo dopoguerra si deve tener presente che «il ventennio fascista aveva costituito la versione italiana di processi globali, tanto che la nascente democrazia non poté non prenderne atto, salvaguardando e anzi potenziando le misure strutturali che la dittatura aveva assunto». Da questa considerazione tratta dalla Storia economica d’Italia (il Mulino) di Rolf Petri prende le mosse un innovativo saggio di Paolo Soddu, La via italiana alla democrazia. Storia della Repubblica 1946-2013, appena pubblicato per i tipi della casa editrice Laterza. Dopo la Prima guerra mondiale, scrive Soddu, «l’Italia aveva fornito un’alternativa credibile e seducente alla democratizzazione pluralista, con l’ingresso autoritario delle masse guidate da un leader carismatico nella vita pubblica». Il fascismo «fu anche modernità e non mera opera di conservazione», e questa modernità lasciò «tracce profonde» nella stagione politica successiva alla caduta e all’uccisione di Benito Mussolini. Il fascismo «fu la prima forza di massa che dalle Alpi alla Sicilia organizzò, sia pure – elemento decisivo – in modo autoritario, politicamente gli italiani». E che «sebbene essi non volessero ammetterlo, lasciò loro un’eredità in certo senso avvelenata»; tanto più che «la liberazione da quel senso totale, conforme e riflesso del pluralismo asfittico del Paese, richiese tempi lunghi». Di quella natura, infatti, «partecipavano, in maggiore o minore misura, tutte le culture politiche degli italiani».
La fine dell’Italia fascista aprì le porte «all’Italia plurale». Un’Italia che tuttavia, osserva Soddu, «ereditò dalla dittatura fascista forme di socializzazione politica che riadattò alla dimensione democratica». Sicché trasformò «regnicoli» e «camerati» in cittadini. Mantenne i «caratteri dissociativi» che provenivano dal suo passato secolare. Ma questi caratteri «andarono via via indebolendosi, tanto che tutte le culture politiche tentarono – senza riuscirci – di riformare se stesse e i partiti nei quali si identificavano». Alla fine del Novecento la morte dei partiti storici – in primo luogo conseguenza della fine della Guerra fredda, «ma frutto di ragioni depositate nel tempo e dell’intrinseca difficoltà a mutare se stessi» – aprì la via a una democrazia dell’alternanza. Che assunse, sì, «toni sguaiati» e tuttavia pose le fondamenta di «un pluralismo diffuso, non meramente elitario, antropologicamente inclusivo». Anche se «del passato conservava la demonizzazione dell’avversario».
Protagonisti del libro di Soddu sono i grandi della storia dell’Italia repubblicana: Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Amintore Fanfani, Palmiro Togliatti, Giovanni Malagodi. E poi Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, Enrico Berlinguer. Ma un’attenzione particolare è dedicata ai «laici» a partire dagli azionisti e a finire con Carlo Azeglio Ciampi, anche lui reduce dal Partito d’Azione.
L’intransigenza del Partito d’Azione e del Psiup sulla questione istituzionale indicava una via alla democrazia che cancellasse ogni traccia del fascismo, facendo interamente i conti con esso. Il Pd’A si proponeva di tradurre in realismo politico l’idea gobettiana che la riforma nel Novecento assumesse un sapore politico, cioè nel modo di intendere, organizzare, orientare, nutrire lo stare insieme. Laddove molto importante era stata l’evidenziazione, da parte del leader liberaldemocratico antifascista Giovanni Amendola, sul carattere tutto secolare del nesso religione/democrazia. L’azionismo, nonostante, o forse a ragione della morte in fasce della sua forma partito, attraversò tutta la vicenda repubblicana perché «dotava di anima il sentire della convivenza democratica egualitaria tra i tanti diversi per genere, per condizione sociale, per dislocazione geografica, per potere». Fu quindi, consapevolmente o meno, interlocutore indispensabile per tutti gli altri e non solo per i partiti nei quali confluirono i suoi gruppi dirigenti.
Soddu è incuriosito dal giudizio che Piero Calamandrei diede degli articoli che compaiono nella prima parte della Costituzione: «Precetti morali, definizioni, velleità, programmi, propositi, magari manifesti elettorali, magari sermoni… tutti camuffati di norme giuridiche ma che norme giuridiche non sono» e perciò stesso, a suo dire, in stridente contrasto con la natura medesima di un testo costituzionale. Ricorda Soddu come, per quello che riguarda il nostro Stato, la sinistra laica si fosse battuta sia contro la formulazione voluta da comunisti e socialisti di «repubblica dei lavoratori», sia contro quella di compromesso suggerita da Amintore Fanfani (che passò) di «repubblica democratica fondata sul lavoro». Avrebbero preferito, i laici, che ci definissimo una Repubblica fondata «sui diritti di libertà e sui diritti del lavoro».

Sulla scia di un libro di Paolo Petta ( Ideologie costituzionali della sinistra italiana 1892-1974 edito da Savelli), l’autore torna agli autentici motivi per cui il Pci fu monocameralista. Il costituente comunista Renzo Laconi lamentava la «tendenza a limitare, a correggere, a bilanciare l’azione popolare, tendenza che suona sfiducia nel popolo e nei suoi organi rappresentativi, la tendenza a limitare l’azione delle istanze democratiche, a frenarla, a disperderla nel tempo», in sostanza «a togliere allo Stato democratico la capacità di tradurre in atto la volontà popolare». Talché Pietro Nenni si era sentito in dovere di denunciare il «vizio segreto di questa Costituzione», in «continuità con quel che era accaduto dal Risorgimento in poi»: «Sfiducia nel popolo, paura del popolo, e, qualche volta, terrore del popolo; necessità di frapporre fra l’espressione della volontà popolare e l’esecuzione della stessa volontà popolare quanti più ostacoli, quanti più diaframmi possibile».
Un riflettore è puntato anche sulla figura del presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che dopo le elezioni del 1953, verificata «l’impossibilità dei gruppi parlamentari di esprimere una maggioranza», manda a Palazzo Chigi Giuseppe Pella a guidare un «suo» governo. Quell’innovazione – ben tratteggiata nel libro di Gabriella Fanello Marcucci, Giuseppe Pella. Un liberista cristiano (Rubbettino) – darà, da quel momento in poi, un senso diverso al ruolo del Quirinale. Ed è significativo che sia stato quel tipo di presidente ad introdurre quel genere di novità.
Interessante è anche lo spunto che offre a Soddu la persistente «irritazione» di Guido Carli nei confronti di Ugo La Malfa al momento della costituzione del quarto governo Fanfani nel 1962 (riscontrabile ancora nel libro scritto a metà anni Novanta dallo stesso Carli assieme a Paolo Peluffo, Cinquant’anni di vita italiana, edito da Laterza). Ufficiosamente quella polemica era riconducibile all’accelerazione che il leader repubblicano avrebbe voluto imprimere all’ingresso dei socialisti nel governo. In realtà il Governatore della Banca d’Italia era diffidente nei confronti dell’eccesso di iniezioni di keynesismo che, a suo dire, La Malfa voleva fare all’economia italiana. Il 1962 è l’anno della «Nota aggiuntiva» di La Malfa, vero e proprio manifesto programmatico del centrosinistra. Per la quale il ministro repubblicano ricevette attacchi da destra e da sinistra. Fu Giorgio Amendola a notare, in Parlamento, il suo isolamento. Rilevò, il leader comunista, in un dibattito parlamentare «non soltanto l’aperta critica della stampa di destra e confindustriale, ma anche la freddezza e la cautela della stampa governativa alla quale corrisponde, direi, la freddezza palese anche in questa aula dove l’onorevole La Malfa è apparso spesso solo». Amendola ignorò le frecciate a La Malfa che venivano dal suo stesso partito ma aggiunse: «È vero che siamo tutti un po’ soli in questo dibattito: vi è però un isolamento politico che mi sembra non si possa nascondere se vogliamo vedere le cose come sono».
Con Ugo La Malfa alla guida del Partito repubblicano cambia qualcosa nella geografia politica italiana. Rispetto alle tradizionali forze di massa, il cui leader era espressione del rafforzamento dell’organizzazione e quindi elemento di identificazione per coloro che ne condividevano l’appartenenza o come militanti semplici o come elettori, «il nuovo capo, pur amato e idolatrato, aveva tuttavia caratteristiche diverse». Era infatti «decisiva la capacità sua di esercitare influenza e fascino oltre la propria famiglia politica, interessando anche quanti verosimilmente non gli avrebbero mai espresso consenso elettorale».
In questo La Malfa fu simile a Marco Pannella, anche lui alla guida di un piccolo partito capace di esercitare una smisurata influenza. I radicali pannelliani furono, secondo Soddu, «un fenomeno complesso e insieme innovatore». Offrirono al Paese un modello di partito «dotato di una guida carismatica cui corrispondeva un’agile struttura organizzativa affascinata e rapita dalla leadership; si giovarono in modo decisivo di un modo di comunicare appreso dai movimenti collettivi, dalle culture giovanili e dai linguaggi artistici che, con la diffusione di happening, assimilava il crescente rilievo dei media televisivi» (come per primo, trent’anni fa, mise in risalto con considerazioni sottili Gianni Statera in La politica spettacolo. Politici e mass media nell’era dell’immagine, edito da Mondadori).

I radicali, prosegue Soddu, «seppero sfruttare con grande abilità e fantasia le tribune autogestite, fino a farle diventare autentica notizia che a cascata riusciva a dominare la comunicazione; furono clamorosamente innovativi nella campagna referendaria del 1978 con la performance dei muti e imbavagliati Pannella, Emma Bonino, Gianfranco Spadaccia e Mauro Mellini».
Pannella seppe muoversi con grande efficacia sull’onda del Sessantotto. «Su versanti diversi», scrive Soddu, «nuova sinistra e radicali conversero, con obiettivi molto diversi, anche su un’idea di evoluzione del Paese che privilegiava – prima e anzi in opposizione al reciproco riconoscimento tra i diversi attori, tra le tante parti che componevano il Paese – il modello conflittuale». «Uniti sì ma contro la Dc», recitava uno slogan di quegli anni, sicché i radicali furono i primi a proporre l’alternativa, sperimentata negli opposti schieramenti che si erano fronteggiati al referendum sul divorzio del 12 maggio 1974. Era, «con parole e con propositi non sempre coincidenti, la risposta che si pensava dovesse affermarsi vittoriosamente rispetto a quella che, a metà del decennio degli anni Settanta, appariva la crisi definitiva del blocco storico imperniato sulla Dc». Un’ipotesi politica, la loro, che conquistò anche un importantissimo leader socialista dell’epoca, Giacomo Mancini.
I «nuovi» radicali (così Soddu per distinguerli da quelli degli anni Cinquanta) «sposarono l’alternativa, sebbene non in versione finalistica». Che è un’immagine assai diversa da quella che liquida i radicali come «generosi» nelle battaglie per i diritti civili ma «impolitici» per tutto il resto. Per Soddu gli allievi di Pannella furono invece «effetto dell’occidentalizzazione del Paese e del suo riferirsi a modelli organizzativi da noi ancora sconosciuti». Diedero «nuova linfa a pensieri, sentimenti irriducibilmente avversi alla ricomposizione consensuale». Non che prima siano state ignorate, ma con il libro di Soddu gli studi storici iniziano a pagare compiutamente il debito che il nostro Paese ha nei confronti di personalità quali quelle di Ugo La Malfa e Marco Pannella. Ed è ascrivibile a suo merito averlo fatto con metodo sistematico.