La Stampa, 13 gennaio 2017
Quelle tribù islamiste di Misurata che si oppongono all’Occidente
Quante divisioni ha Khalifa Ghwell, l’ex premier del dissolto governo di salvezza nazionale libico ufficialmente responsabile dell’assalto di ieri a Tripoli? Sebbene gli uomini di Fayez Sarraj ridimensionino quello che a loro dire non sarebbe stato neppure un tentativo di golpe, la domanda resta urgente e per diversi motivi. Innanzitutto, fa notare l’esperto dell’European Council on Foreign Relations Mattia Toaldo, Ghwell è originario di Misurata, la cruciale città costiera da cui provengono le milizie che finora hanno sostenuto Sarraj. Andranno in suo soccorso adesso che, dopo averci già provato a ottobre occupando il Consiglio di Stato, Ghwell tenta l’ennesima spallata a un esecutivo internazionalmente riconosciuto ma ancora piuttosto traballante?
L’occupazione di tre ministeri di fatto mai passati al nuovo governo e praticamente deserti è pressoché irrilevante in sé, potrebbe essere letta come una rivendicazione «sindacale» da parte di uno dei tanti gruppi libici che in queste ore cercano di ottenere una posizione. Anche le divisioni di Ghwell non destano preoccupazione sulla carta: a giudicare dalle parate in piazza di martiri, gli islamisti irriducibili al Governo libico di accordo nazionale (Gan) potranno contare a occhio e croce su una cinquantina di pick up. Eppure gli analisti come Toaldo sospettano che Ghwell potrebbe essere il piede di porco contro Sarraj nelle mani del generale ex gheddafiano Khalifa Haftar, irriducibile nemico degli islamisti ma a loro accomunato oggi tatticamente dall’avversità al Gan. I media libici riferiscono da settimane che gli incontri tra gli emissari dei due gruppi si sono intensificati in virtù della debolezza di Serraj, che ieri tra l’altro era al Cairo.
A sintonizzare le antenne di Haftar su quelle di Ghwell, esponente dei misuratini islamisti e più ostili all’occidente, c’è la perdurante incertezza della Libia, dotata di un governo puntellato dall’esterno ma con sempre minore convinzione. Una fonte libica suggerisce che per esempio la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli sia stata una scelta simbolicamente forte ma abbia messo «in posizione calda» il nostro Paese: nel momento in cui l’America di Trump si allontana e casomai guarda a Putin, (assai sbilanciato verso Haftar), la Francia mantiene la sua posizione ambivalente, la Gran Bretagna si concentra soprattutto su se stessa, Roma sembra rimasta l’ultima grande potenza a tenere in alto la bandiera dell’Onu e l’appoggio all’esecutivo di Sarraj. Non a caso nelle ultime ore l’Italia è stata accusata di sbilanciamento verso Tripoli prima dal fronte di Tobruk, nel giorno della visita di Haftar alla portaerei russa Kuznetsov al largo della Cirenaica, e poi è finita nel mirino degli islamisti a cui fa riferimento Ghwell proprio per la decisione di riconoscere con l’apertura dell’ambasciata una legittimità a loro invisa. I siti islamisti hanno chiesto il ritiro dei soldati italiani e denunciato la presenza di presunte navi italiane in acque libiche (si tratterebbe di barche della guardia costiera libica riconsegnate dopo la manutenzione nel nostro paese).
Ricapitolando, l’attacco di ieri sembra essere stato poca cosa, qualche decina di uomini coinvolti e nessuno scontro registrato. Ma la situazione è torbida e tutto può diventare un pretesto. Il governo di Sarraj paga anche il prezzo di situazioni meno geopolitiche e più contingenti come il black out che da giorni lascia Tripoli senza elettricità, riscaldamento e internet per almeno 16 ore al dì, un problema d’infrastrutture aggravato da verosimili sabotaggi politici e da quello sicuro dei contrabbandieri, furiosi con l’esecutivo per i controlli al confine con la Tunisia.