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 2017  gennaio 13 Venerdì calendario

A scuola si va anche se fa freddo

Fa freddo, e alcune scuole sono chiuse, perché i termosifoni sono rotti o non riscaldano abbastanza. Qualche classe ha tentato di resistere, e i giornalisti sono corsi a fotografare i ragazzi sui banchi. Sto guardando una di queste foto, in una scuola di Roma (non di Bolzano).
Una ragazza ha un immenso alone intorno alla testa: è il cappuccio della pelliccia, che le lascia fuori solo la faccia. Un ragazzo ha la sciarpa al collo: maglione alto, pesante, e sciarpa girata più volte, e annodata. Il freddo dev’essere pungente. In un’altra scuola della stessa città, la nostra capitale, l’Istituto tecnico Galilei, i mille studenti son rimasti a casa: la scuola è vuota. Il problema si ripete in molte altre città: Pavia, Imperia, Pistoia, ma anche Agropoli, che sta in provincia di Salerno, e perfino Palermo.
Possiamo capire i genitori che non mandano, o richiamano a casa, i loro figli, dalle scuole gelide? Sì, possiamo capirli. A scuola hanno freddo, a casa stanno al caldino.
Faremmo così anche noi?
In generale sì, non possiamo sopportare neanche l’idea che i nostri figli patiscano il freddo. Ma (ecco perché scrivo questo articolo) facevano così i nostri genitori con noi?
Qui la memoria mi soccorre, e mi dice: No.
Andare a scuola era importante. Pioggia o neve, ci s’andava. E le aule non avevano termosifoni, alcune avevano una stufa, ovviamente a legna, e noi ragazzi portavamo la legna da casa. Va bene, sto rievocando la mia scuola di campagna, alle elementari, ma quando son passato alle medie e poi alle superiori, la situazione non cambiava: scuole fredde, stufa a legna, arrangiarsi e vestirsi pesante. Facciamo il confronto tra le aule romane vuote e questa fotografata con gli studenti con la sciarpa e le studentesse con la pelliccia intorno alla testa: dove vorremmo che fossero i nostri figli? Io, con i secondi, a scuola.
In questi giorni ha girato un video tra le news digitali, si vedevano ragazzini cinesi, delle elementari, che scalavano montagne, arrampicandosi per una scala di pioli, per arrivare a un pianoro sul quale sta la scuola. Bambini piccoli, in fila indiana. Pochi anni fa ha girato per i nostri cinema un documentario indimenticabile, intitolato Io vado a scuola, e mostrava come vanno a scuola i bambini nelle condizioni più difficoltose del mondo. Ricordo due fratelli, un bambino e una bambina, in Cile, che andavano a scuola a cavallo. Da casa a scuola erano ore e ore di distanza, al piccolo trotto. Arrivati a scuola, legavano il cavallo a una sbarra, alla quale eran già legati i cavalli dei compagni di classe giunti prima. Ogni cavallo aveva una coperta sulla groppa, colorata, ogni ragazzo il suo colore. Ricordo un padre cinese che portava il figlioletto, disabile, in spalla, scalando colline e guadando torrenti. Voleva che suo figlio imparasse, che vivesse una vita culturalmente autonoma.
Ricordo due fratelli del Kenya, che tra casa e scuola dovevano correre per ore, cercando di evitare i leoni. Nel documentario si vedeva che spiavano giù dal cocuzzolo di una collina, e vedendo un gruppetto di leoni a sinistra, loro piegavano a destra. Il documentario durava un paio d’ore, e alla fine in sala scoppiavano gli applausi: tutti gli spettatori erano d’accordo, andare a scuola è l’evento più importante nella vita dei ragazzi, non si salta la scuola perché è lontana, o perché bisogna salire un monte, o guadare un fiume, o evitare i leoni.
Tantomeno, aggiungiamo oggi, perché bisogna indossare un piumino o una sciarpa o una pelliccia.
Tra la giornata di un ragazzo che se ne sta a casa al caldo, marinando la scuola, e quella del ragazzo che a scuola ci va, tenendosi addosso il piumino, la seconda ha un senso, la prima no. Detto questo, se le scuole sono importanti, anzi importantissime, anzi irrinunciabili per i nostri ragazzi, lo Stato ne tenga conto, e provveda a riscaldarle.