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 2017  gennaio 13 Venerdì calendario

Paolo Cognetti: «L’idea di famiglia, casa e carriera è in crisi. Vivere in città è lo specchio di quel fallimento»

«Ama e fa‘ ciò che vuoi». Sant’Agostino a duemila metri di quota, vallo ni innevati e boschi di larici. È una giornata d’inverno piena di sole, la baita dove vive Paolo Cognetti, 38 anni, in Val d’Ayas, fa da sponda a una pista dove gli sciatori scendono a rotta di collo. Dentro, la stufa accesa, il cane acciambellato sotto il tavolo, la monumentale biografia di Carver, nessuna traccia di un computer. «Quel motto è la sola regola che mi sono dato quando scrivo, ama i tuoi personaggi e poi fai quello che vuoi. Se c’è l’amore, qualunque cosa racconti non può fare male», dice. I personaggi dei suoi libri sono il calco degli amici che si è trovato quassù: Remigio che, come il Bruno di «Le otto montagne», ha il talento di saper costruire; Gabriele che condivide tempo ed energie con le sue baracche, le mucche d’alpeggio. Descritti nelle loro ruvidezze di carattere, parole che non escono, vite poco esportabili perché fatte di fatica e mogli che, quando ci sono, scelgono di andarsene. «Temevo la prendessero male, invece hanno apprezzato l’onestà con cui racconto di loro».
Sono otto anni che Cognetti vive nella baita sopra Brusson, in Valle d’Aosta. I primi sei mesi – quelli dello stupore, delle notti insonni per un improvviso rumore di passi, della solitudine da eremita – li ha raccontati ne «Il ragazzo selvatico» (Terre di Mezzo). Poi sono arrivate «Le otto montagne» (Einaudi) ed è stato un colpo d’ala, il libro che ha fatto di lui e della sua montagna un tema di discussione, «ciò che ho prodotto prima mi appare come un apprendistato, necessario per arrivare a scrivere questo».
Ogni decade della vita ha i propri amori. «Fra i 20 e i 30 anni mi sono appassionato alla città, la trovavo ricca di storie, di persone da scoprire. Frequentavo la facoltà di matematica e insieme la Scuola civica di cinema di Milano». Gli anni in cui si apre alla vita adulta, quelli in cui nasce il suo amore per New York. «Poi, all’inizio dei 30, la mia vita in città ha perso senso, forse perché non avevo un lavoro che mi ha fatto mettere radici – allora giravo documentari – e per me la città non è mai stata il luogo del fare. Avevo investito tempo ed energie nella Scighera, un circolo culturale alla Bovisa, periferia di Milano. Quell’esperienza, come tutte le situazioni collettive avventurose, era entrata in crisi, fu una grande delusione politica assistere allo sfaldamento di un gruppo forte, che si è autodistrutto per stanchezza, invidie, gelosie. La mia fuga dalla città coincide con quel fallimento che per molti segnò un ritorno al privato: avevamo dato tanto, adesso cominciavamo ad occuparci delle nostre cose».
Cruciale l’incontro con il libro di Jon Krakauer, Into The Wild, storia di Christopher McCandless e del suo viaggio verso l’Alaska: «Mi ha fatto pensare che la montagna potesse essere il mio posto», dice Cognetti (e mentre racconta come sia bastato l’incontro con una lepre per strapparlo alla solitudine, con la quale non ha ancora fatto pace, tornano in mente le parole di Primo Levi ne «Il sistema periodico», dedicate all’amico Sandro Delmastro ma che sembrano scritte per lui: «Vederlo in montagna riconciliava con il mondo. Era il suo luogo, quello per cui era fatto»).
I primi mesi sono stati difficili, poi è arrivata la primavera «e ho ritrovato una felicità che non mi aspettavo: quella che provavo da bambino quando, dopo un anno in appartamento a Milano, salivo in montagna a passare l’estate. È una felicità che, non so come, avevo sepolto». Quel tipo di felicità che rende più interessanti le pareti e le creste, magari fuorimano, rispetto alle vette celebrate, «a me la nostra società non piace e me ne tengo più lontano che posso».
E adesso? «Mi fermo, è il tempo dell’esplorazione. Vorrei fare qualcosa qui. Ho bisogno di comunicare in altro modo la montagna che ho in testa: che non è quella della sagra della polenta e non è neppure quella colonizzata da chi viene a sciare. È un luogo vivo in cui nascono e crescono relazioni. Vorrei organizzare un festival, con artisti, musicisti, architetti, persone con le quali progettare un futuro diverso».
Quella per i rifugi alpini e per la loro vita spigolosa è una passione recente, che gli fa accarezzare l’idea di prenderne in gestione uno, «un mestiere stagionale, conciliabile con la scrittura». Perché quello dello scrittore «è un lavoro malsano da fare a tempo pieno», prima viene la vita, la passione per uomini e cose, saperli guardare ed amare, «altrimenti non c’è alcun motivo per fare la fatica di scriverne». «La mia esperienza in montagna coincide con qualcosa di epocale: l’idea che la vita sia costruirsi una famiglia, una casa, una carriera è entrata in crisi con la mia generazione. La città è lo specchio di quel sogno diventato fallimento. E allora per tanti sta diventando un’urgenza: che ci stiamo a fare in città? Il paesaggio non è forma, è sostanza: entra nelle relazioni. C’è bisogno di semplificare per essere felici, di vivere con poco per essere liberi. C’è anche un lato economico: in città stai sempre con il portafoglio in mano. Anche in montagna i soldi servono, ma non sono lo strumento delle tue giornate».
Il tramonto di qualcosa nasconde sempre l’alba di qualcosa d’altro e «Le otto montagne» è un libro su un sentimento centrale nel mondo di Cognetti: l’amicizia. «Sono rarissime, sopratutto fra gli uomini, le amicizie vere da adulti. I ragazzi della mia età parlano della coppia, della famiglia come unici luoghi in cui sentirsi al sicuro. Siamo molto soli. I lettori mi scrivono: raccontano fragilità, incertezze. Non possiamo più fare gli uomini come si faceva in passato, ma non è ancora chiaro quale sia il modo nuovo. “Il ragazzo selvatico” è questo: diario di un giovane che vuole capire come e quale uomo diventare. E riesce a farlo in montagna, riscoprendo la solitudine, l’uso del corpo e il senso di condivisione che nasce dal fare insieme certi lavori – tagliare un albero, raccogliere il fieno. È questo sforzo condiviso che mi ha fatto crescere, in città non avrei costruito relazioni di questa intensità» (e fa ripensare al monito di Thoreau, il filosofo che dialogava con la natura, «ci incontriamo troppo spesso, senza avere il tempo di acquisire nuovo valore uno per l’altro»). Ha una compagna con la quale ha trovato un equilibrio fra voglia di stare insieme e bisogno di solitudine, «ma sono ancora troppo figlio per desiderare di diventare padre».