Il Messaggero, 12 gennaio 2017
Paolo, il re dell’isola Tiberina. «Sono rimasto l’unico abitante»
Quando anche le luci dei ristoranti, a notte fonda, si smorzano, e gli ultimi reduci della movida trasteverina affrettano il passo verso casa, quando i pazienti degli ospedali se ne vanno, quando la basilica di San Bartolomeo, a una certa ora, chiude le porte ai fedeli, resta solo lui. Paolo. E il suo cane Tiberino, detto Tibbò. Pensare che i ristoratori storici – vedi il nipote della Sora Lella, che sforna pastasciutte a pranzo e cena come ai tempi di Aldo Fabrizi – lo chiamano ancora «lo Straniero». Perché Paolo C., 80 anni, è approdato sull’Isola Tiberina da «solo» quindici anni.
All’epoca qualche residente ancora c’era. Un esempio illustre: Joseph Kosuth, l’artista concettuale americano, che ha abitato al piano sopra Paolo per quasi 10 anni. «Adesso è tornato a Londra. Sono rimasto solo». L’ultimo abitante, insieme al ragazzo indiano che lo assiste, di un’isola «che ha 2.500 anni di storia». Un’isola «che ha un genius loci, uno spirito, che andrebbe rispettato, invece...». Invece? «Invece in questi anni ho visto nascere un avamposto della movida, del baccano estivo, con la musica a tutto volume, gli ubriachi a zonzo fino all’alba». Prima era l’isola dei romani, dice, «ora è dei turisti di passaggio».
GESTANTI E VISITATORI
A pensare ai primi anni, dopo il trasloco, gli si illuminano gli occhi. «Mi ricordo quando la mattina vedevi solo la frotta delle partorienti, perché all’ospedale, al Fatebenefratelli, c’è una maternità rinomata». Oggi le gestanti ci sono ancora, «ma non le noti neanche, nel via vai dei turisti». Turisti che «per fortuna – dice Paolo – si vedono solo d’estate, per lo più». Nella sua casa, in piazza di San Bartolomeo, accanto alla chiesa barocca, ci è capitato quasi per caso, all’inizio del Duemila. «Ho passato l’infanzia in Toscana – racconta – poi sono stato a lungo in Friuli, come psicologo. Quando ho finito di lavorare ho deciso di venire a Roma, per restarci. Non volevo un posto qualunque, cercavo qualcosa di speciale». Fu così che un giorno, spulciando gli annunci immobiliari, venne incuriosito da un’inserzione insolita: «Isola tiberina. Pensai si trattasse del classico specchietto per le allodole; magari un appartamento in zona – ricorda – ma sulla terraferma. Invece era proprio qui, sospeso in mezzo al Tevere».
Con la vista mozzafiato, il balconcino a picco sul Tevere, lato ponte Fabricio, fu amore a prima vista. «La casa invece era un disastro, col tempo si era trasformata in un antro per barboni. Insieme ai proprietari, abbiamo praticamente dovuto ricostruire tutto l’interno, come volevo io. Ma ne è valsa la pena, oggi non riesco a immaginarmi altrove. Il mio posto è qui».
LEGGENDE E REALTÀ
Un posto di cui è diventato uno dei massimi esperti. Della storia dell’Isola dà l’idea di conoscere quasi ogni episodio, ogni leggenda: sul grano dei Tarquini che, ammassandosi nel fiume, diede origine al primo isolotto; sul tempio di Esculapio, il dio della medicina, dove oggi c’è la basilica; sui lazzaretti, sul primo ospedale nato nel 600.
Cosa si prova a essere l’ultimo residente di un’isola con 2mila anni di storia? «Un po’ di imbarazzo – dice Paolo – Perché è troppo bello, sapendo quanta gente ha problemi con la casa o si trova in situazioni precarie. Sento un certo disagio quando penso a chi non è privilegiato come me». Certo l’affitto non è proprio a prezzi di mercato: circa 3mila euro al mese, per 100 metri quadri. «Ci spendo i risparmi di una vita, ma ne vale la pena».
Appena arriva l’estate, però, Paolo fugge via. «Vado nella mia casa in Toscana. Sarò onesto: provo un fastidio straziante per tutti quei locali che spuntano sulle rive dell’Isola, per le proiezioni a tutto volume. Ogni anno sistemano delle casse proprio sotto alla finestra della mia camera da letto. Un fracasso che mi rende impossibile addormentarmi. Ogni volta chiamo i vigili, ma non fanno niente. Quel periodo, meglio la terraferma».