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 2017  gennaio 12 Giovedì calendario

Il superpoliziotto rimosso per i silenzi sulle cyberspie. «Ho sottovalutato i rischi»

ROMA In una storia in cui non c’è una sola cosa che sembri aver girato nel verso giusto – vertici istituzionali, apparati dello Stato, società strategiche, banche centrali, aggredite informaticamente per sei anni senza che lo spyware degli Occhionero venisse individuato – ce ne è una, italianissima, più storta delle altre. Insieme grottesca e inquietante. Che lo Stato fosse sotto attacco è notizia che, fino alla mattina di martedì, quando gli arresti sono diventati di dominio pubblico, è stata taciuta al Capo della Polizia, ai vertici della nostra Intelligence, all’autorità politica. Per otto mesi, è faccenda rimasta nella esclusiva disponibilità, oltre che della Procura della Repubblica di Roma, del direttore della Polizia postale, Roberto Di Legami, che ha ritenuto di non doverla condividere con nessuno. E che, per questo, martedì sera è stato rimosso in tronco dal suo incarico.
Raccontano ora che, martedì, di fronte alla sua catena gerarchica, Di Legami, un passato alla Omicidi a Palermo, un periodo ad Europol all’Aja, e soprattutto una storia professionale priva di qualsiasi attitudine specifica in materie informatiche, abbia farfugliato. E che, incapace di trovare un argomento plausibile in grado di giustificare il suo silenzio, durato appunto otto mesi, abbia semplicemente e candidamente ammesso di aver «sottovalutato la portata dell’inchiesta». Di più: di non essersi neppure posto il problema delle implicazioni per la sicurezza nazionale, dell’opportunità, tanto per dire, che gli “aggrediti”, a cominciare dal Presidente del Consiglio e dal Presidente della Bce, venissero avvertiti dei rischi che stavano correndo, e questo «perché non era stato possibile accertare se, effettivamente, i tentativi di intrusione avessero avuto o meno successo».
Possibile?
È un fatto che solo venerdì della scorsa settimana, per la prima volta da quando l’indagine è cominciata e con la certezza che siano ormai imminenti gli arresti degli Occhionero, Di Legami avverta l’esigenza di informare il suo superiore gerarchico, Roberto Sgalla, direttore centrale della Direzione delle “specialità” di quanto è accaduto e sta per accadere. È un colloquio che, ricostruito a posteriori, ha un tratto surreale. Di Legami appare infatti preoccupato non tanto di aver messo le mani su un verminaio le cui implicazioni politiche e istituzionali sono facilmente immaginabili, quanto della circostanza che, nell’inchiesta, sia coinvolto per favoreggiamento tale Maurizio Mazzella, poliziotto massone della Stradale di Sala Consilina, già sospeso disciplinarmente dall’agosto dello scorso anno, cui Giulio Occhionero si è appoggiato per raccogliere informazioni sul conto del pubblico ministero che lo indaga, Eugenio Albamonte. Che, insomma, a tormentarlo siano i rischi per il buon nome della Polizia e non lo svelamento della fragilità del nostro sistema di difesa dagli attacchi informatici.
È un fatto che, venerdì, la frittata sia ormai stata fatta. E che, quattro giorni dopo, per parafrasare Flaiano, una storia tragica scolori in farsa. Mentre infatti Di Legami passa da una testata giornalistica all’altra per vendere la merce dell’inchiesta del reparto che dirige, discettando di «centri di dossieraggio», un pezzo di classe dirigente del Paese e i vertici del nostro controspionaggio cadono dal pero. Nessuno, per dire, è in grado di spiegare a Renzi perché, nell’autunno scorso, qualcuno non lo abbia avvisato di evitare di utilizzare l’account mail personale di Apple su cui si era registrato il tentativo di intrusione. Nessuno è in grado di spiegare al direttore dell’Aisi, il nostro controspionaggio, per quale diavolo di motivo, il 5 ottobre scorso, quando le abitazioni di Giulio e Francesca Occhionero vengono perquisite dalla Polizia Postale – e quando dunque l’indagine non è più un segreto neppure per chi ne è oggetto – nessuno ritenga utile coinvolgere l’Intelligence non fosse altro per verificare chi fossero e per conto di chi trafficassero quegli sconosciuti fratello e sorella di mezza età che da sei anni spiavano i gangli dello Stato.
Persino la Procura di Roma appare frastornata. Che di quanto stava accadendo fosse informato il vertice della Polizia e il Viminale veniva dato, fino a martedì sera, per scontato. Non fosse altro perché all’indagine aveva lavorato il Cnaipic, il Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche, che della Polizia Postale è l’articolazione investigativa.
Ma, appunto, di scontato, in questa faccenda non sembra esserci nulla. Come dimostra un altro curioso dettaglio. Nell’informativa della Postale alla Procura della Repubblica di Roma, quella di cui Di Legami ha ritenuto di non dover informare nessuno, c’è un errore materiale. Il cognome del poliziotto infedele è sbagliato. Maurizio Manzella, si legge. Non Maurizio Mazzella, come di fatto è e come viene documentato alla Procura quando, alla vigilia degli arresti e delle perquisizioni, la sua anagrafica viene corretta. Un banale errore, si dirà. Se non fosse per il profilo di quel poliziotto massone a disposizione di Occhionero e di cui leggete in queste pagine.