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 2017  gennaio 11 Mercoledì calendario

Dall’800 ai talebani, l’Afghanistan in un kolossal teatrale

Milano Fu un giovane ufficiale di guardia alle porte di Jalalabad il primo a vedere William Brydon. Avanzava lentamente attraverso l’arida pianura ai piedi dei passi d’alta montagna dell’Afghanistan in sella a un pony inzaccherato ed esausto. Più morto che vivo, Brydon, ufficiale medico dell’esercito britannico, era l’unico sopravvissuto di un corpo di spedizione formato da 4500 soldati inglesi e indiani e 12 mila civili, tra cui donne e bambini, massacrati il 13 gennaio 1842. L’episodio è raccontato nel primo dei tre capitoli che compongono Afghanistan. Il grande gioco, il nuovo progetto di Elio De Capitani e Ferdinando Bruni, dal 17 gennaio in prima nazionale al Teatro dell’Elfo di Milano.
«Lo spettacolo – spiega De Capitani – ha debuttato nell’aprile 2009 al Tricycle di Londra, la più grande officina di teatro politico inglese. Dopo aver letto un articolo su Internazionale, con Bruni abbiamo pensato che fosse un progetto vicino alla sensibilità del nostro modo di fare teatro». «L’Afghanistan è da sempre il crocevia dell’Asia centrale – interviene Bruni —: ma cosa sappiamo di questo paese nel quale sono tutt’oggi presenti truppe italiane, e che da almeno due secoli è terreno di scontro delle grandi potenze? Da questo interrogativo ha preso le mosse il lavoro del Tricycle, composto da 13 testi commissionati ad altrettanti autori: Invasione e indipendenza (1842-1930); Il comunismo, i Mujahedin e i Talebani (1979-1996); ed Enduring Freedom (1996-2010)».
Per la prima parte Bruni e De Capitani hanno scelto i testi di Stephen Jeffreys, Ron Hutchinson e Joy Wilkinson che riguardano il periodo 1842– 1930 e i testi di David Greig e Lee Blessing che appartengono al periodo 1979–1996, dall’invasione dell’Armata Rossa all’ascesa dei Talebani.
«Il primo atto, Trombettieri alle porte di Jalalabad – racconta Bruni – è la storia di quattro trombettieri che scrutano l’orizzonte: il figlio del khan ha promesso agli inglesi un ritiro in pace, ma su 220 mila uomini ne arriveranno in India solo 70, gli altri verranno trucidati. È metafora e parabola del disastro: l’Afghanistan è una trappola geografica dalla quale non puoi più uscire. Ed è una storia che arriva fino a noi oggi attraverso la diaspora dei migranti che fuggono verso l’Europa». L’ultimo capitolo in scena quest’anno è Minigonne di Kabul di Greig – prosegue De Capitani – che racconta di Najibullah, l’emiro filosovietico che negli anni 80 fece una fine orribile per mano degli integralisti talebani». È lui a sostenere, nello spettacolo, a proposito dei confini tracciati dagli occidentali: «ogni maledetto conflitto che c’è oggi al mondo ha la sua origine nell’immaginazione dei topografi britannici». Ed è ancora Najibullah, in una intervista immaginaria, a dire che «la democrazia è una dimostrazione del potere potenzialmente violento della maggioranza». È così? «Lo spettacolo non offre né tesi né suggestioni ma uno spunto di riflessione, anche in considerazione di quello che sta succedendo nel mondo» osserva De Capitani.
La prima parte di Afghanistan. Il grande gioco arriva alla fine dell’influenza occidentale. Per i capitoli sui talebani e su Enduring Freedom bisognerà aspettare l’anno prossimo. «La storia dei rapporti tra Occidente e Afghanistan – conclude Bruni – è la metafora di tutti gli errori fatti in Medio Oriente e Asia. Vogliamo raccontare un periodo di cui si sa poco ma ci coinvolge tanto, riaffermando l’idea di un teatro che parla di civiltà continuando a essere vivo».