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 2017  gennaio 10 Martedì calendario

In nome dell’islam si cala un velo sopra l’arte occidentale

Ero alla mostra di Gino Covili, nel Labirinto di Franco Maria Ricci (andateci, è aperta fino al 5 marzo), e vedendo tanti maiali, tanti prosciutti appesi, tanti bicchieri di vino, tante donne che bevono e ballano e si divertono, insomma tutto il repertorio delle feste paesane dell’Appennino emiliano, mi è sorta una domanda molesta: fino a quando quest’arte dionisiaca sarà visibile senza problemi? Fino a quando la crescente presenza islamica nelle nostre città e nella nostra economia non condizionerà pittori e organizzatori?
Non credo di essere particolarmente apocalittico bensì particolarmente logico: siamo in una nazione dove i dirigenti dei musei hanno cominciato a coprire le statue raffiguranti dee nude per rispetto dei visitatori iraniani, e dove i parroci hanno cominciato a non allestire i presepi per rispetto verso le altre religioni, ossia per quieto vivere (in effetti i presepi rimasti negli scatoloni non corrono il rischio di venire incendiati com’è accaduto l’altro giorno al presepe di Foggia sgradito a un maomettano del Gambia). In simile contesto di crescente sottomissione mascherata di multiculturalismo (che comunque come scrive Richard Millet è «una forma di decomposizione culturale, spirituale e sociale») basta un nonnulla perché una mostra venga ritenuta inopportuna, perché un artista venga bollato come divisivo, ed ecco a voi, di nuovo, la censura. A Londra l’opera di un’artista siriana è stato rimosso dalla rassegna Passion for freedom, dedicata ai più courageous artists. Mimsy, che giustamente si difende con uno pseudonimo, mostrava la pericolosità dell’Isis (non dell’islam, si badi bene: dell’Isis) ed è bastato questo per volatilizzare tanta passione per la libertà: la polizia ha fatto presente agli organizzatori il pericolo di attentati e in men che non si dica gli attivisti anticensura si sono trasformati in zelanti censori. Invece nessun problema, nell’ambito del medesimo premio, con le Madonne esibenti il seno nudo o con quelle a forma di vagina: i cristiani non si fanno saltare in aria, offenderli non costa nulla.
Cose dell’Oltremanica? Non direi: cose anche nostre. Giovanni Gasparro, il più cattolico dei pittori viventi, mi ha appena raccontato delle condizioni poste da una compagnia di navigazione italiana al momento di commissionargli un quadro per una nave da crociera: «Mi invitarono a non dipingere figure nude, perchè fra i loro ospiti abbondano i milionari degli Emirati Arabi, ovviamente musulmani». Altro che Covili! Se fossero stati condizionati dagli emiri Tiziano non avrebbe mai dipinto L’amor sacro e l’amor profano e Canova non avrebbe mai scolpito le Tre grazie. Al Michelangelo delle statue delle Cappelle Medicee, colpevole delle tette più attraenti dell’arte mondiale, i coranisti più ligi avrebbero come minimo tagliato una mano.
Alla ricerca di conferme circa le mie preoccupazioni, o magari di rassicuranti smentite, interpello un secondo ultrafigurativo (gli astrattisti con l’islam corrono pochi rischi) ossia Nicola Verlato, che per sua fortuna anzi per suo merito vive a Los Angeles. «Ciò che viene venduto ai potentissimi collezionisti arabi va per la maggiore anche a New York, e colui che è considerato il massimo artista americano vivente, Richard Serra (uno che deforma e installa gigantesche lastre di ferro arrugginito), riceve la più grande commissione della sua carriera dal Qatar, stato finanziatore dell’Isis che ha distrutto l’arte figurativa assiro-babilonese». Dunque Verlato vede l’arte occidentale fra l’incudine dell’iconoclastia interna e il martello dell’iconoclastia che arriva da fuori. Doppio condizionamento e censura da tutte le parti. Povero Covili e povera Barbara Nahmad, italiana e figurativa ed ebrea, tre handicap in una pittrice sola. Anzi quattro: Barbara è finanche sionista e temo a dirlo perché è come fissarle sul petto la stella gialla, in questo mondo dell’arte all’ombra dei petrodollari. La famiglia al-Thani che comanda a Doha si compiace di acquistare, sponsorizzare, determinare le quotazioni di artisti ben poco iconici: Rothko, Ryman, Reinhardt... Covili e Nahmad se le possono scordare simili attenzioni, così come il Luca Pignatelli della Battaglia di Lepanto e del recente Persepoli, grande lavoro che spericolatamente sovrappone una dea pagana a un tappeto da preghiera. Pure le madonnine di Fulvia Mendini e le mignotte di Silvia Argiolas e le feriali nudità di Riccardo Mannelli e le mangiatrici di culatello di Enrico Robusti non ce le vedo bene ad Art Dubai, e ho evocato solo alcuni degli innumerevoli soggetti islamicamente scorretti.
Mi rituffo nel catalogo di Gino Covili e ammiro Il guardiano della vigna (uva da vino, ovviamente) e penso che nei prossimi anni bisognerà fare la guardia alla libertà dell’arte con altrettanta fermezza, se non vogliamo che ce la rubino.