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 2017  gennaio 10 Martedì calendario

Cresce la disoccupazione. Le misure del Jobs act funzionano sempre meno

Il #JobsAct funziona» twittava appena quattro mesi fa Matteo Renzi. L’Istat, eravamo a metà settembre, registrava infatti 439mila occupati in più, 109mila disoccupati in meno e segnalava un primo calo anche dei «Neet», i ragazzi che non studiano e non lavorano. Il capo del governo,insomma, aveva le sue buone ragioni per rallegrarsi dei «585mila posti in più» creati dal giorno del suo insediamento. In realtà, anche se gli economisti dicono di non guardare al dato mese per mese, le ultime cifre diffuse ieri sempre dall’Istat, confermano per l’ennesima volta che la spinta del corposo pacchetto di riforme messo in campo nel 2014 continua ad affievolirsi. 
Il dramma dei giovani
Nel trimestre settembre-ottobre-novembre il numero degli occupati è infatti calato dello 0,1% (-21 mila) stabilizzandosi attorno a quota 22,7 milioni. Nello specifico a novembre ci sono stati 19mila occupati in più di ottobre e 201mila in più rispetto a novembre 2015 (+0,5%). Di contro però la disoccupazione che risale all’11,9% (+0,2 rispetto a ottobre e +0,5 sul 2015) segnando il record da giugno 2015 mentre in tutta Europa cala. La crescita di posti di lavoro, ancora una volta si concentra esclusivamente tra gli over 50 +453mila) mentre cala tra i giovani. Il cui indice di disoccupazione risale in maniera preoccupante al 39,4% dal 37,6% di ottobre, ai massimi da oltre un anno. Di positivo c’è il calo degli inattivi, segno che il mercato del lavoro si sta comunque muovendo, ed il tasso di occupazione generale (57,3%) che si avvicina al massimo toccato nel giugno 2009. 
Cosa funziona e cosa no
Il Jobs act funziona ancora? Il bilancio, a quasi due anni dal varo, e a due giorni dal pronunciamento della Consulta sui referendum promossi dalla Cgil (su articolo 18, voucher e appalti), è in chiaro-scuro. L’occupazione, come si è visto, pur in presenza di un Pil che fatica ad aumentare, è cresciuta. E certamente ha funzionato l’azione di contrasto della precarietà, quel salto di qualità del mercato del lavoro che sta tanto a cuore al ministro del Lavoro Poletti determinato dall’aumento dei contratti a tempo determinato a scapito di quelli a termine (oltre 2,4 milioni già a fine 2015 tra assunzioni e trasformazioni). 
Tre problemi aperti
Certamente il Jobs act è servito poco agli under 35, visti i livelli sempre impressionanti di disoccupazione giovanile. Anche se poi un programma come Garanzia giovani cresciuto mese dopo mese è arrivato a prendere in carico oltre 830mila ragazzi offrendo a 433mila di loro almeno una delle misure studiate per favorire il loro inserimento nel mondo del lavoro.
Altro problema, i voucher. Su questo strumento da un lato pende l’ipotesi del referendum e dall’altro si ipotizzano nuovi interventi correttivi da parte del governo. I dati ci dicono che il loro numero continua a crescere in maniera esponenziale (+66% nel 2015, +34,6% nei primi 9 mesi del 2016 a quota 109,5 milioni) anche se poi rappresentano solo lo 0,23% del totale del costo lavoro. 
La terza spia di allarme l’ha accesa direttamente all’Inps segnalando nei mesi scorsi un generale aumento dei licenziamenti (+4% nel 2016 a quota 448.544, dopo il -5% dell’anno prima) compresi quelli disciplinari (+28,3% nei primi 8 mesi del 2016) come risultato del giuro di vite sulle dimissioni volontarie una volta che è diventato obbligatorio l’invio on line di tutte le comunicazioni. 
Rebus politiche attive
Infine nel pacchetto del Jobs act resta una questione insoluta: riguarda gli strumenti e le iniziative destinate a favorire l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro. Dopo il faticoso decollo dell’Agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) il referendum di dicembre che ha riconsegnato alle Regioni il pieno controllo di queste materie mette seriamente a rischio il rilancio ed il potenziamento di tutte queste attività. E questo fa venire meno una delle gambe su cui si doveva reggere l’intera riforma del lavoro.