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 2017  gennaio 09 Lunedì calendario

L’era Obama si chiude con il record sul lavoro 75 mesi consecutivi di crescita degli occupati

«QUESTO martedì sera a Chicago – dice Barack Obama – darò il mio messaggio di addio al popolo americano. Insieme, abbiamo risollevato un’economia che si degradava e distruggeva lavoro. La povertà arretra, i redditi salgono, abbiamo costruito un’America più forte per le generazioni che ci seguono». Settantacinque mesi consecutivi di crescita dell’occupazione, un record. Sedici milioni di nuovi posti di lavoro creati. La disoccupazione scesa a livelli vicini al pieno impiego, 4,7% della forza lavoro, metà della media europea. E tutto questo è avvenuto dopo un punto di partenza terrificante: quel gennaio 2009 in cui Obama s’insediò alla Casa Bianca, vide 600mila licenziamenti in un solo mese. L’America che lui ereditava da George W. Bush otto anni fa era franata nella più grave crisi economica dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. La storia di questi otto anni non è certo merito di un presidente, l’economia non obbedisce agli ordini dei governi. Ma Obama fece la sua parte, a cominciare dai contestati salvataggi delle banche e dell’automobile che costarono 700 miliardi (poi recuperati); e la maxi-manovra di rilancio Recovery Act che gettò altri 800 miliardi negli ingranaggi dell’economia, investimenti pubblici ed incentivi alle energie rinnovabili. Infine il robusto e decisivo aiuto della Federal Reserve: una politica monetaria innovativa inchiodò i tassi a zero e soprattutto iniettò 4.000 miliardi di liquidità comprando titoli (con la svalutazione del dollaro come benefico effetto collaterale).
Eppure il capolavoro della ripresa americana – che gli europei hanno ragione di invidiare – è stato seguito dall’elezione di Donald Trump. Sull’economia come sugli altri terreni la transizione è accidentata, polemica, stizzosa.
Trump ha passato la campagna elettorale a liquidare la ripresa obamiana: «Dati truccati». A seconda dei comizi, il repubblicano ha urlato che la vera disoccupazione è al 20%, o al 30%, perfino al 40%. Numeri in libertà, che lui è pronto a rimangiarsi dal 20 gennaio quando comincerà ad attribuirsi i meriti di ogni miglioramento. Ma nella sua comunicazione “post-fattuale”, Trump coglie una verità. C’è una fascia di lavoratori che devono accontentarsi di impieghi precari, part-time e sottopagati, mentre avrebbero bisogno di fare il tempo pieno (in questo senso la “vera” disoccupazione è al 9%). C’è un esercito di americani che sono usciti dalla forza lavoro, hanno smesso di cercare un posto. C’è anche un pezzo di classe operaia declassata, che ha visto sparire le sue fabbriche in Messico o in Cina, si è ricollocata nei nuovi mestieri del terziario povero: camerieri di fast-food, cassiere degli ipermercati, fattorini di Amazon. Con buste paga dimezzate. È lì che crescono i suicidi, le morti per overdose delle nuove droghe (oxycontin), la longevità che si riduce per la prima volta da decenni. Per questo il bilancio di Obama può essere al tempo stesso straordinario e deludente. Poiché i suoi otto anni di presidenza includono un primo semestre 2009 con un’ecatombe micidiale di posti di lavoro, alla fine il suo bilancio netto è un aumento di occupazione dell’8,4%, non così brillante come Ronald Reagan (+18%) né tantomeno di Bill Clinton (+21%), le due ultime Età dell’Oro che nutrono le narrazioni nostalgiche.
I salari reali hanno cominciato a salire solo di recente, i primi anni della ripresa obamiana hanno riprodotto il vecchio modello: tutti i benefici sono andati ad arricchire ancor più l’1%. Da queste ingiustizie nascono i populismi di destra e di sinistra, Tea Party e Occupy Wall Street. In quanto ai giovani, ha torto Obama quando dice di lasciargli un’America migliore. Mai come oggi l’università è diventata un lusso, con rette che superano i 50.000 dollari annui per le superfacoltà di élite. Le banche fanno prestiti a chi non ha genitori ricchi, ma ci sono ragazzi che cominciano la carriera lavorativa con mezzo milione di debito da restituire, una vita in salita. Il boom di Wall Street, con il Dow Jones che sfiora il massimo storico dei 20.000 punti, è un’altra contraddizione dell’èra Obama, accentua le diseguaglianze: i grandi patrimoni azionari sono concentrati nelle mani di un’oligarchia.
Trump sembra un improbabile Robin Hood: palazzinaro, elusore fiscale, e difensore della classe operaia? Con i casi Ford e Carrier, le due aziende che hanno ceduto alle sue pressioni e investiranno negli Usa anziché in Messico, lui vuole mantenere almeno alcune promesse: presidenza anti-global, populista e protezionista. Dazi punitivi contro chi produce all’estero, sgravi fiscali a chi reimporta capitali, e una generale riduzione delle tasse sulle imprese. Deregulation per i capitalisti e le banche. Via libera all’energia petrolifera. Investimenti a gogò nell’edilizia e opere pubbliche. Ce n’è un po’ per tutti, questo giustifica la luna di miele tra l’establishment industrial- finanziario e il presidente-eletto. Gli esperti hanno sbagliato ancora: come dopo Brexit, anche dopo l’elezione di Trump non c’è stata l’Apocalisse, l’unico fracasso sono stati i tappi dello champagne che volavano a Wall Street. Il superdollaro sancisce l’attesa di un ritorno d’inflazione, e risucchia capitali dal resto del mondo, dalla Cina come dall’Italia. Da una ripresa solida, costante e moderata (Obama) potremmo passare ad un boom surriscaldato dal deficit pubblico. Dietro l’angolo, naturalmente, ci sarà prima o poi una recessione. Ma nessuno azzecca mai le previsioni sul quando e sul quanto. Per ora Trump può salire su una locomotiva avviata. E cominciare esperimenti che avranno ripercussioni sul mondo intero.