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 2017  gennaio 10 Martedì calendario

Coming out di gruppo per i calciatori gay

L’idea di Clarke, n. 1 della Federazione inglese. Tommasi: «Società più aperta ma non facciamone un evento»
«Ragazzo dove vai se vuoi una pagnotta?».
«Dal fornaio, coach».
«E dove vai se vuoi un cosciotto d’agnello?».
«Dal macellaio, immagino...».
«Allora perché continui ad andare in quei fottuti locali per froci?».
Il dialogo tra Brian Clough, il duro in panchina per eccellenza, e Justin Fashanu, il primo calciatore nero britannico con un cartellino del valore di un milione di sterline (Nottingham Forest, 1981) – come riportato nella biografia («Nobody ever says thank you») del più scostante, intrattabile, permaloso e arrogante football genius d’Inghilterra – rimorde ancora la coscienza del calcio britannico. Il pallone non è un paese per gay a nessuna latitudine e sappiamo bene come finì la triste storia di Fashanu: il coming out alla fine del ‘90, la gogna pubblica, l’onta del ripudio da parte del fratello John, la fuga negli Usa, l’accusa di stupro di un adolescente, il suicidio. 2 maggio 1998, in un garage di Shoreditch, Londra. È in questo contesto che va collocata, quasi vent’anni dopo, la proposta di Greg Clarke, presidente della Federcalcio inglese (Fa), 60enne di Leicester, conservatore pentito che l’anno scorso aveva vivamente sconsigliato qualsiasi calciatore omosessuale di venire allo scoperto, pena «pesanti offese». La notizia è che Clarke, alle prese con il pesantissimo scandalo della pedofilia (dallo scorso novembre quasi quotidianamente i tabloid inglesi aggiornano il conto dei club coinvolti nella vicenda degli abusi sessuali commessi su giovani giocatori degli anni 70 e 80), ha cambiato idea: «La mia proposta è questa: se un certo numero di calciatori di alto livello vogliono dichiararsi gay, perché non farlo insieme? Una persona non dovrebbe affrontare tutta la pressione da solo ma la condividerebbe con altri».
L’iniziativa, spiega Clarke al Times, potrebbe contare sull’appoggio non solo della Fa ma anche della Premier League e della Football League. «A inizio stagione tutti i tifosi sono convinti che sarà la loro annata e pensano positivo: sosterrebbero i giocatori gay nei loro club, ma sono preoccupato di cosa urlerebbero contro i gay delle altre squadre». E poi la perla finale: «Ho incontrato 15 sportivi omosessuali nelle ultime quattro settimane, tra questi c’erano anche calciatori. E ho chiesto la loro opinione. È difficile trovare una soluzione comune perché molti calciatori gay sono felici come sono, e non si preoccupano di come possano stare altri colleghi. Non voglio costringere nessuno a uscire allo scoperto, deve essere una scelta personale». Scelta che, finora, nel calcio di alto livello pochissimi hanno fatto. Thomas Hitzlsperger, ex Bayern, Aston Villa e Lazio: «In Inghilterra, Germania o Italia la questione dell’omosessualità non è presa sul serio, soprattutto negli spogliatoi, e non è una bella cosa. Io non mi sono mai vergognato di essere quello che sono, ma non è stato facile sedersi a un tavolo con venti giovani uomini e ascoltare barzellette sui gay: essere omosessuale è un argomento tabù nel calcio». Anton Hysen, figlio d’arte svedese (il padre Glenn è stato difensore di Fiorentina e Liverpool) e figlio di un Paese ateo e liberale, la Svezia, il primo calciatore a fare coming out in Europa che al Corriere nel 2011 confessò: «In una nazione cattolica come l’Italia, non l’avrei detto...». Yoann Lemaire, difensore del Fc Chooz (Ardenne), il primo francese: contratto risolto. Robbie Rogers, negli Usa, presenze in nazionale e nei LA Galaxy resuscitati da Beckham.
In Italia, nonostante l’appello dell’ex c.t. Cesare Prandelli («L’omofobia è razzismo: calciatori, fate coming out...») nessuno. «Mi piace pensare che nel 2017 ciascuno si senta liberamente se stesso nell’ambiente in cui lavora – spiega Damiano Tommasi, presidente dell’Assocalciatori —. Credo che siamo a buon punto. I tempi sono cambiati, la società pure». Se lo immagina, Tommasi, un coming out di massa in serie A? «Con quale obiettivo? Dove si vuole arrivare? Farne un evento, proprio no. E sinceramente credo non sia lo scopo nemmeno degli inglesi».