Corriere della Sera, 9 gennaio 2017
L’imperatore degli hamburger: affari, genialità e sogni traditi dell’uomo che inventò McDonald’s
Ti lascia con una strana sensazione la proiezione di The Founder, tra la rassegnazione e il rimpianto, come quella di un eroe che poi non si è rivelato all’altezza dei nostri sogni (non dei suoi, attenzione), ma non come il Jeremy Fox di langhiana memoria, il cui cinismo era propedeutico e pedagogico alla crudeltà della vita. No, il Ray Kroc che Michael Keaton interpreta con malinconica partecipazione, quasi controvoglia, eppure con un’energia contagiosa, non è l’ammodernamento di un personaggio del Covo dei contrabbandieri. E nemmeno solo il ritratto di un’America trionfante, coi suoi sogni e i suoi successi. La messa in scena di John Lee Hancock e soprattutto la sceneggiatura di Robert Siegel finiscono per tratteggiare un personaggio che forse nemmeno si accorge di aver tradito le proprie ambizioni ed è proprio su questo crinale di ambiguità e di contraddizioni che il film prende vita e colpisce. Perché dà l’impressione di non sapere bene che posizione avere su uno dei pilastri del capitalismo americano, né cosa fare di una delle icone pop più conosciute nel mondo e di quei sogni dove la realtà ha superato l’immaginazione.
Ray Kroc, che come ogni bravo capitano d’industria che ce l’ha fatta ha anche tramandato la «versione autorizzata» della sua vita con La vera storia del genio che ha fondato McDonald’s (scritto con Robert Anderson), sembrava avere una sola qualità nel suo arco: la perseveranza. E infatti all’inizio del film lo vediamo non stancarsi mai di proporre il suo frullatore Multimixer capace di fare cinque frappè insieme, ogni volta ripetendo la convincente spiegazione che si è preparato a memoria e ogni volte incontrando lo stesso deciso rifiuto.
Fino al giorno in cui decide di far visita a chi – i fratelli Dick e Mac McDonald (rispettivamente Nick Offerman e John Carroll Lynch) – ne ha ordinati addirittura sei. E scopre così quello che, nel 1954, era una piccola ma vera rivoluzione: sostituire agli sprechi di tempo dei drive-in (dove una cameriera portava il cibo su un vassoio da appoggiare sulla portiera dell’auto, a volte sbagliando ordinazione) l’efficienza e la rapidità dei walk-up, dove i clienti facevano la fila in piedi davanti al negozio e potevano scegliere tra pochissimi cibi ma il servizio era istantaneo. Senza contare che la qualità degli hamburger venduti era sempre inappuntabile, grazie a una messa a punto del lavoro in cucina che avrebbe fatto impallidire le catene di montaggio della Ford.
È qui che si accende la lampadina nella testa di Ray, quando capisce che la sorpresa che ha provato di persona potrebbe essere esportata anche fuori San Bernardino, dove i due fratelli avevano aperto il loro chiosco, per diventare quel successo che aveva sempre cercato con perseveranza fino ad allora, ormai cinquantaduenne. Ed è qui che il film inizia a prendere quel suo andamento ambiguo e ondivago perché da una parte segue la «storia del genio che ha fondato McDonald’s» fino a diventare uno dei massimi imprenditori del Paese e dall’altra mostra come dietro al genio si nasconde il furbo, l’uomo dei cavilli, che fa accordi con una stretta di mano e poi non la rispetta. Persino la sua vita sentimentale è raccontata con curiose reticenze: non si capisce bene la stanchezza per la prima moglie Ethel (Laura Dern), che pure l’ha supportato negli anni dei fallimenti e della vita da piazzista, così come sembra senza problemi il fatto che porti via chi diventerà la sua seconda moglie Joan (Linda Cardellini), a uno dei suoi primi affiliati nell’avventura McDonald’s. Ma evidentemente non si può chiedere a Hollywood di avere lo stesso spirito di Bertold Brecht.
Per questo i momenti più deboli del film (e della sceneggiatura) sono proprio quelli in cui Ray Kroc si lascia andare e intreccia spirito degli affari e filosofia all american, voglia di successo e sociologie egemoniche, quando anche il film sembra credere alla versione autorizzata della storia del «genio»: è vero che l’hamburger di McDonald’s e i suoi archi dorati sono diventati uno dei simboli più popolari del mondo, ma le sue tirate patriottico-alimentare sanno di recita. Mentre prende vita quando abbandona l’agiografia e ci fa capire un po’ meglio cosa si nasconde dietro il luccichio del sogno americano.