Corriere della Sera, 9 gennaio 2017
Il doppio standard dell’Europa per evitare la crisi del credito
Nell’ottobre del 2012, con la fase più esplosiva della crisi ormai alle spalle, da Tokyo arriva un messaggio di cui pochi in Italia allora capiscono le implicazioni. È racchiuso nei numeri in una tabella del rapporto annuale sulla stabilità finanziaria, che il Fondo monetario internazionale presentava in quel momento dal Giappone: mostra che le banche italiane hanno il terzo più alto livello di crediti in default dei Paesi avanzati dopo Grecia e Irlanda. Poiché lo stesso Fmi prevedeva già dopo l’economia sarebbe caduta di un altro 0,7% nel 2013 (poi sarebbe stato meno 1,7%), era una richiesta implicita all’Italia di rimboccarsi le maniche.
Salvataggi di Stato
Giuseppe Mussari, ancora presidente dell’Associazione bancaria italiana dopo il suo disastroso operato al Monte dei Paschi, scrive a Christine Lagarde. Con il direttore generale del Fmi Mussari protesta per l’«erronea rappresentazione». Fu emblematico di una riluttanza diffusa a prendere il toro per le corna, che da allora ha segnato tante fasi della crisi bancaria italiana.
La sequenza che dall’estate scorsa ha portato alla nazionalizzazione di Monte dei Paschi è incomprensibile senza pensare il clima creatosi in questi anni. Il 29 luglio 2016 la banca di Siena esce dagli stress test disegnati dalla Banca centrale europea e della Commissione Ue, quindi gestiti dall’Autorità bancaria europea, con un risultato stranamente bifronte. Nello «scenario di base», un’ipotesi della situazione di bilancio nel 2018 se l’economia andasse come previsto, Mps presenta un livello accettabile in una misura del capitale di base chiamata CET1 (12,04%). Nello «scenario avverso», simulando una grave crisi, il patrimonio invece è addirittura negativo di -2,23%. Significa che senza una soluzione, la Bce potrebbe pilotare un fallimento di Mps, che in gergo si chiama «risoluzione» e implica una sforbiciata al risparmio nella banca per 13 miliardi di euro.
Gli esami a Berlino
Secondo molti in Italia lo stress test non è credibile a confronto dei risultati di Deutsche Bank. Alla prima banca tedesca i regolatori applicano in apparenza parametri molto più morbidi: permettono di contare come capitale i proventi dalla cessione di Hua Xia, una controllata cinese, malgrado ciò sembri fuori da ogni regola degli esami europei pubblicati a luglio scorso. Non conta solo che la vendita di quell’istituto di Pechino per 3,1 miliardi di euro non sia avvenuta entro la fine del 2015, la data limite per i bilanci bancari da passare al vaglio. Colpisce di più che l’operazione non sia conclusa neanche a fine luglio del 2016, quando l’Eba pubblica i risultati degli stress test. Questo sembra in chiara violazione del principio di base dell’esercizio: le banche vanno messe alla prova «ipotizzando un bilancio statico», spiega la stessa Bce. In altri termini, vengono messe alla prova nell’ipotesi che blocchino il bilancio fra il 2016 e il 2018. Il dato drammatico di Mps nello «scenario avverso» si spiega così, mentre per Deutsche Bank lo stress test contabilizza ricavi che sarebbero arrivati ben quattro mesi dopo.
È possibile che vi siano state interferenze politiche, ma non vi sono riscontri. Un esame dei dati e della legge bancaria europea suggerisce però che la vicenda parallela di Mps e Deutsche Bank negli stress test ha conseguenze decisive in questa fase: permette all’Italia di proteggere i risparmiatori; e evita che un problema su Deutsche Bank contagi il resto dell’area euro, complicando fra l’altro l’aumento di capitale di Unicredit.
Affermare negli stress test che Monte dei Paschi ha un patrimonio sufficiente nello «scenario di base», ma è sotto zero in quello «avverso», significa infatti gettare le premesse di ciò che poi sarebbe avvenuto: un salvataggio pubblico senza imporre perdite alle famiglie coinvolte. Lo «scenario di base» segnala infatti che la banca non è insolvente, quello «avverso» dice con la massima durezza possibile che rischia grosso. Diventa così legale (ed è fermamente incoraggiata da Francoforte e Bruxelles) una «ricapitalizzazione precauzionale» da parte dello Stato, che disinnesca le regole europee dannose per i risparmiatori. L’Italia lo capisce solo dopo il cambio a Palazzo Chigi.
Troppo grandi per fallire
Quanto a Deutsche Bank, lo strappo alle regole le ha permesso di non risultare negli stress test fra le più deboli banche dell’area euro. Dato che quell’esame secondo la Bce è un «input cruciale» per definire i requisiti di capitale della banca, sarebbe stato più difficile abbassare questi ultimi per il primo istituto tedesco (come per vari altri) due settimane fa. Ma senza quella riduzione, certi titoli complessi emessi da DB rischiavano di crollare di nuovo sui mercati, con il rischio un contagio finanziario nel quale anche l’aumento di capitale di Unicredit sarebbe risultato più in salita. Trattare Deutsche Bank con i guanti bianchi non è stato solo un interesse tedesco.
Con un bilancio da 1.689 miliardi, quella banca è «too big to fail»: troppo grande per non destabilizzare l’intero mercato europeo se ha un problema. Del resto Bnp Paribas lo è ancora di più, con un bilancio in rapida espansione a 2.173 miliardi: vale quasi come l’intero prodotto lordo della Francia. Ma «too big to fail», per ora, è un problema troppo grande anche per la Bce.