Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  gennaio 09 Lunedì calendario

Giordano Bruno, il mistero dell’altro rogo

Nel 1599, fra giugno e settembre, un insolito menù a base di carne e qualche abito nuovo furono fatti arrivare, a spese del Sant’Uffizio, a fra Celestino da Verona, sotto processo a Roma per eresia e, da settembre, in attesa della pena capitale. Stando ai conti arrivati fino a noi, il trattamento di favore si interruppe il 13 settembre e, due giorni dopo, sul finir della notte, il prigioniero fu condotto al rogo. L’intera vicenda sarebbe forse potuta passare inosservata – una esecuzione fra tante – se non fosse che, di norma, le cose venivano gestite in maniera diversa. Per salvare l’anima sia all’eretico sia al pubblico che assisteva alla sua fine, lo spettacolo della morte si celebrava sempre di giorno, in grandi spazi e la cittadinanza doveva essere messa in condizione di parteciparvi. Le esecuzioni al buio, semplicemente, non servivano a nessuno. Eppure, per Celestino, qualcuno scelse una fine diversa.
«Maladetta ostinatione»
Qualche mese dopo, le procedure tradizionali furono rispettate e in una gelida mattina del febbraio 1600 un altro frate entrò in quella stessa piazza. L’uomo, che si chiamava Giordano Bruno, aveva compiuto una scelta tremenda in difesa della sua filosofia rifiutando fino all’ultimo l’abiura. «Stette sempre nella sua maladetta ostinatione, aggirandosi il cervello e l’intelletto con mille errori e vanità», si raccontò all’epoca. Che cosa mai gli sarà passato per la testa, in quegli ultimi momenti? Perché mai un pensatore accorto, che già una volta aveva avuto a che dire con l’Inquisizione, messo di fronte a una prova di questa portata, si decise a un sacrificio tanto estremo? E, chissà se, nei lunghi anni di prigionia, ne aveva discusso con uno dei compagni di cella, che era il suo grande accusatore e si chiamava, per l’appunto, Celestino da Verona?
Il nesso tra i due processi e tra i due destini è al centro del libro di Germano Maifreda Giordano Bruno e Celestino da Verona. Un incontro fatale (Pisa, Edizioni della Normale). Celestino, ora, non è soltanto il firmatario delle denunce contro il Nolano che, ogni qual volta la procedura si trovò incagliata, permisero alla corte di fare un passo in avanti, ma la pedina di una macchinazione più ampia. Al centro, il destino dello scontro feroce che opponeva cappuccini e domenicani e la richiesta pressante di sottomissione incondizionata che l’Inquisizione avanzava nei confronti di ogni altra istituzione ecclesiastica. E fu proprio la sottomissione ciò che Bruno, come qualunque studente di liceo sa bene, rifiutò ai suoi giudici al termine di un processo anomalo.
Procedura irregolare
Sono molte le incongruenze che nel tempo hanno acceso la curiosità degli storici, da quando le prime carte hanno iniziato a tornare alla luce nella seconda metà dell’Ottocento: l’immediata incarcerazione veneziana, senza che prima fosse aperto un fascicolo; le informazioni spedite a Roma solo in un secondo momento; i memoriali che andavano e venivano tra improvvise accelerazioni e frequenti lunghe fasi di stallo; la cautela con cui il filosofo intrattenne un dialogo con l’Inquisizione lasciandosi aperta per anni la via della ritrattazione; e poi la tragica fine, che contraddiceva tutta la strategia perseguita fino a quel momento.
Maifreda ritorna sulle irregolarità della procedura forte di una puntuale indagine negli archivi, che gli permette di affiancare minuto per minuto, con una ricostruzione che si legge tutta d’un fiato, l’andamento del caso Bruno alle faccende di Celestino, con la comune fine sul rogo. Eppure, fa notare lo storico, i conti dell’Inquisizione e i movimenti insoliti di migliaia di scudi tra le casse pontificie in quei giorni lasciano intravedere un’altra possibilità.
«Segui il denaro»
«Follow the money», recita un noto adagio di tante inchieste giornalistiche. Può darsi che questo vecchio assunto valga anche per uno dei più celebri processi di tutti i tempi e che, a seguire il flusso del denaro, si finisca per chiedersi chi sia finito in mezzo al fuoco in quella strana non-cerimonia del settembre 1599. Qualcuno che non parlava perché incosciente più che ostinato, che era vestito da frate ma che secondo alcuni racconti frate non era mentre, forse, gli abiti da viaggio pagati dal Sant’Uffizio erano indosso a Celestino in partenza per lidi più sicuri.
Chissà se una girandola simile ha mai avuto luogo e chissà se Giordano Bruno l’ha osservata, capendo, solo in un quel momento, mentre il travestimento barocco giungeva alle estreme conseguenze, che per lui non vi erano possibilità e quindi, nella farsa, non vi era altra strada che testimoniare la verità, appellandosi a Clemente VIII nella speranza che questi intervenisse secondo giustizia per poi scoprire che, invece, anche il Papa era parte dell’ingiustizia. Certezze non ve ne sono, se non che la figura del grande filosofo nolano è destinata ancora e per molto tempo a scuotere le coscienze, nella sua lotta per la verità, qualunque essa fosse.