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 2017  gennaio 09 Lunedì calendario

Dacia Maraini: «Ho amato Alberto Moravia ma ancora di più mio padre»

La vita di Dacia Maraini somiglia a un romanzo. Un romanzo che va avanti spedito, visto che, a ottant’anni appena compiuti, sta pensando a un nuovo libro. Nata a Fiesole il 13 novembre 1936, è una donna incapace di mezze misure: ha sempre detto quello che pensava. Figlia di Fosco Maraini, etnologo-intellettuale allergico ai nobili «arroganti» e di Topazia Alliata, principessa pronta a rinunciare al benessere per amore, ha avuto un’infanzia lontana dalla favola delle principesse. Internata da piccola in un campo di concentramento, durante la guerra, dopo che era andata a vivere in Giappone con la sua famiglia. Tornata in Italia a nove anni «affamata, poverissima, con la cugina morta ancora acquattata nel fondo degli occhi».
È stata amica di grandi scrittori, registi e artisti, da Alberto Moravia, compagno di una lunga parte della vita, a Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Maria Callas, Enzo Siciliano, Italo Calvino. Ha vinto il Campiello con «La lunga vita di Marianna Ucria», tradotto in 30 lingue e diventato un film di Roberto Faenza. Nel 1999 s’è aggiunto anche il Premio Strega con i racconti di «Buio» sull’infanzia indifesa. È sempre stata attenta al mondo delle donne, alla loro condizione, ai loro cambiamenti. Per questo la giuria del quarto Premio Internazionale di Cortona «Semplicemente Donna» le ha conferito un premio, un riconoscimento alle eccellenze del mondo femminile, attive nel processo di trasformazione della società.
Chi è stata la donna più importante della sua vita?
«Senza dubbio mia madre. Persona di grande coraggio, uno spirito libero e indipendente. A lei devo tanti insegnamenti».
I più determinanti?
«Mi ha insegnato a essere libera. Libera ma non libertina. Lo sottolineo perché quando si parla di donne, alcune parole possono essere pericolose. È questione di misoginia del linguaggio. Se diciamo uomo libero, pensiamo alla libertà di pensiero, mentre con donna libera si tende a pensare al libertinaggio».
Cosa vuol dire essere una «donna libera»?
«Libera di testa, una che crede e difende le proprie idee».
E invece, l’uomo più significativo della sua vita?
«Papà Fosco, anche lui persona di incredibile coraggio».
Il coraggio – anche – di affrontare a testa alta la detenzione giapponese. Che tracce porta di quegli anni?
«La sofferenza era quotidiana, e la morte dietro l’angolo. Ho conosciuto la fame. Sento ancora le ferite procurate da quel campo di concentramento. Però ne sono uscita forte. Ho imparato ad essere molto responsabile, a pensare sempre prima di agire, a non comportarmi mai da incosciente».
Perché eravate finiti in Giappone?
«Mio papà aveva avuto una Borsa di studio per approfondire una popolazione del Nord del Giappone. Arrivammo nel 1938. Poi scoppiò la guerra. Papà non ne volle sapere di aderire alla Repubblica di Salò, e così finimmo tutti in un campo di concentramento».
Le donne dei suoi romanzi sono forti, lottatrici, indomite. E le donne fragili? Non pensa a costoro o forse vuole offrire modelli che possano ispirare e rafforzare...
«Credo che queste donne possano ispirare e scuotere. E comunque la donna deve avere più fiducia in sé, spesso non crede in se stessa e così finisce per subire. Del resto, la cultura ghettizza o denigra le donne, e questo da sempre. Pensiamo ai Greci, popolo splendido però misogino, lo stesso vale per i Romani e i Cristiani. Con l’eccezione di Cristo. Cristo trattava le donne come pari, e questo non solo a livello teorico, anche pratico. Per esempio, allora le donne mestruate erano considerate impure, invece lui si rivolge a una donna che aveva un mestruo continuo, non la manda via».
Dacia Maraini con quale frequenza scrive? Segue forse dei rituali?
«No, mi siedo e scrivo. Mattina e pomeriggio: tutti i giorni. E questo da quando ho 13 anni. Basta che ci sia il silenzio assoluto».
Cosa sta leggendo in questi giorni?
«Un libro sui conventi medioevali. E qualche volume uscito recentemente. Sono spesso in giurie quindi devo sempre essere informata sulle novità».
Conventi?
«Sono luoghi che mi hanno sempre incuriosito. Se posso, vado a visitarli quando sono in città o Paesi nuovi. Forse gli anni del collegio fiorentino hanno lasciato una traccia, un ricordo delle illiberalità e dei ritmi della reclusione. Certo non paragonabili a quelli vissuti in Giappone. E comunque ho poi avuto un’infanzia nel segno della libertà. Chissà, forse il contrario esercita attrazione, e così mi interesso ai luoghi di segregazione».
Chi sono gli scrittori italiani contemporanei che apprezza?
«Rossana Campo. Ho letto il suo Dove troverete un altro padre come il mio. Bellissimo. Poi non voglio fare nomi, mi spiacerebbe dimenticare qualcuno».
I libri italiani faticano a varcare le Alpi. Perché?
«Molti Paesi sono autoreferenziali, penso all’Inghilterra e agli Stati Uniti. Lì si leggono poco gli scrittori stranieri, e non solo gli italiani, diciamo gli Europei in genere compresi gli scandinavi che sono invece così interessanti».
Chi sono i suoi scrittori prediletti.
«Sciascia, Pasolini, Moravia, Bassani, Morante, Landolfi».
E andando più indietro?
«Italo Svevo».
Alessandro Manzoni?
«Ovviamente Manzoni, più il romanziere che il poeta però. Da bimba lo detestavo, lo concepivo come un dovere, ci imponevano la memorizzazione di intere pagine, ce lo facevano odiare. Poi, da adulta, l’ho riletto e ho capito la sua bellezza».
A 26 anni incontrò Alberto Moravia. Quale è il ricordo più vivo che conserva di lui?
«Aveva un forte senso dell’autonomia. Rispettava molto l’autonomia delle donne, anche di Elsa Morante con la quale, tra l’altro, ero in ottimi rapporti. Era un uomo generoso, dolce, un bel carattere, un conversatore meraviglioso e viaggiatore stupendo. Mi sono trovata bene con lui».
I viaggi del cuore?
«Tanti. Forse quelli in Africa con Pasolini e Moravia. Non stavamo in hotel, nulla di organizzato. Preferivamo tende e missioni. Viaggi oggi non praticabili. L’Africa è cambiata, c’è il terrorismo, non è più sicura».
Cosa è il viaggio?
«Un processo di conoscenza. Tutt’ora detesto i viaggi preconfezionati, perfettamente preparati. Continua a piacermi l’avventura».
Sempre a proposito di Moravia, cosa imparò come scrittrice?
«Provengo da una famiglia di scrittori. Iniziai a scrivere giovanissima, fondando presto una rivista. Quando incontrai Moravia avevo già la mia personalità di scrittrice. E poi Alberto non amava mettersi nei panni del mio maestro anche se all’inizio magari chiedevo qualcosa, ponevo i classici dubbi giovanili».
Citava Pasolini, un grande amico. Cosa è l’amicizia?
«È simile all’amore ma non è sessuale, il sesso è sublimato. Forse l’amicizia è la cosa più bella che ci sia al mondo, ancor più dell’amore che tra l’altro tende a isolare: due innamorati si isolano, l’amicizia invece è scambio. Credo nell’amicizia più di ogni altra cosa, ho rapporti che durano da più di 40 anni ormai. L’amicizia può durare una vita intera, esula dalla gelosia e non pretende di essere univoca, non pretende la fedeltà, la quale è insopportabile se imposta, mentre è bella quando è spontanea».
Tra le sue amiche donne c’era Maria Callas. Che donna era?
«Era una grande donna di teatro, una potente donna di palcoscenico, ma nella vita era fragile, spaventata da tutto, forse un po’ bambina».
La frequentò durante gli anni del legame con Onassis?
«No, dopo. Quando si era innamorata di Pasolini».
Lei ha scritto anche testi personali. Quanto costa mettere a nudo se stessi?
«Lo scrittore lo deve fare, almeno ogni tanto. È una necessità. È giusto che lo scrittore si metta a nudo».
È la scrittrice italiana favorita per il Nobel...
«Lo so ma non ci penso. Sarebbe un bel regalo, ma guai a fissarsi su queste cose».
Come vive il successo?
«Con normalità. Poi non me lo aspettavo. E soprattutto: non l’ho mai ricercato».
Mamma Topazia era principessa. Lei sente queste nobili origini?
«No. Non le sento per niente. Sento semmai la mia origine multiculturale, le radici cilene, siciliane, toscane, ungheresi, polacche. Fin da piccola sono stata abituata a pensare in termini internazionali, a parlare diverse lingue».
Non mancano mai pagine di Dacia Maraini nelle antologie scolastiche. Cosa vorrebbe che imparassero, i giovani, leggendo i suoi libri?
«Ognuno legge a modo suo. Il più grande complimento che uno mi possa fare è che i miei libri tengono compagnia. Perché il libro deve tenere compagnia, lo deve fare in un senso profondo. Mi piacerebbe che i giovani si appassionassero alla lettura, ecco: questo vorrei».
Ma siamo un popolo che legge poco...
«Bisognerebbe fare un lungo discorso sulla lingua italiana. Difficile sintetizzarlo in poche parole. La nostra lingua nazionale è nata tardi, si è dovuta confrontare con tanti dialetti e lingue regionali non scritte, un ritardo enorme che si riflette nella nostra letteratura. Il punto è che abbiamo cominciato prima di tutti ad avere una nostra letteratura, poi c’è stato un blocco causato dalla Controriforma. Si è tornati al latino nelle scuole, tribunali e Chiesa. Il lavoro di Dante, Boccaccio, Petrarca venne congelato. E ancora paghiamo lo scotto di tutto questo».
Capita spesso che parli a platee di studenti. Come li trova?
«Sono tutti falsi i luoghi comuni per cui i ragazzi di oggi non hanno voglia di fare, sono indolenti eccetera eccetera. Vado moltissimo nelle scuole e vedo che dove ci sono insegnanti che amano il proprio mestiere, credono in quello che fanno, leggono, sono appassionati, ci mettono l’anima, ecco lì i ragazzi rispondono meravigliosamente. Se invece l’insegnante fa questo mestiere come se fosse una qualsiasi professione, gli studenti sono abbandonati a loro stessi. Dipende moltissimo dall’insegnante, il docente fa la differenza».
Che opinione ha della scuola italiana?
«La scuola è abbandonata a se stessa e sta vivendo un brutto momento. Non stiamo investendo e un popolo che non investe sull’istruzione può andare solo indietro. La scuola continua a reggere perché è ancorata a una rete di insegnanti che credono in quello che fanno e danno il buon esempio. E laddove li troviamo i ragazzi rispondono benissimo».
Come definirebbe la società d’oggi.
«Rabbiosa».
Cosa pensa della comunicazione social, di quel tipo di scrittura?
«Quella non è scrittura, però è comunicazione. Basta farne un uso corretto».
E della televisione? La segue?
«Qualcosa sì, ci sono trasmissioni e conduttori intelligenti».
Per esempio?
«Milena Gabanelli, il suo è un giornalismo veramente impegnato, offre un servizio. È seria».
Perché ha vinto Trump?
«Perché è carismatico, come lo fu Hitler, per esempio, volendo fare un altro esempio negativo. Trump riesce a toccare certe corde della gente. Ha vinto perché in America in questa fase storica hanno paura, hanno insicurezze e vogliono il cosiddetto uomo forte. Un copione già visto, del resto».
Il prossimo romanzo?
«Impiego sempre fra i due e tre anni a scrivere un libro. Quindi direi intorno al 2018. Ma non ne parlo fino ad allora».