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 2017  gennaio 08 Domenica calendario

L’uomo era violentissimo. Ma oggi meno

Noi uomini siamo particolarmente aggressivi e violenti come specie biologica, o relativamente mansueti e pacifici? E la violenza ci viene dalla natura, come sosteneva, tra gli altri, Thomas Hobbes, o dalla società, come sosteneva Jean-Jacques Rousseau, e più di recente la maggior parte degli intellettuali moderni, che ne attribuiscono almeno in parte la colpa alla cupidigia e allo spirito del capitalismo? Sembra insita nell’essere umano la presunzione di rispondere a tali domande semplicemente argomentando, come ha fatto per secoli con lo strascico di interminabili dispute, e come tende a fare anche oggi, basandosi quasi sempre sul nulla, spesso ferocemente sostenuto e difeso. Ma nel frattempo è nata la scienza con il suo apparato teorico e sperimentale, che consiste essenzialmente nel definire con precisione i termini del discorso, nel fare osservazioni il più estese e accurate possibili, concepire ipotesi e verificarle sul campo, misurando e confrontando, se necessario.
Ed ecco che della questione esposta si è occupata recentemente la rivista «Nature» pubblicando un poderoso studio che riunisce dati biologici su un migliaio di specie di mammiferi, rappresentative dell’80% delle famiglie totali, e dati biologici e storici sulla nostra specie, e scegliendo di analizzare un particolare tipo di violenza, la cosiddetta «violenza letale», cioè gli episodi avvenuti fra individui della stessa specie che conducono alla morte di almeno un individuo, cioè a un assassinio.
Dal punto di vista biologico il risultato è chiaro. All’origine della loro evoluzione culturale gli esseri umani sono stati sei volte più violenti di un mammifero medio e perfettamente in linea con i valori osservati per i primati superiori, cioè le scimmie antropomorfe – gorilla, orango, scimpanzé e bonobo – che rappresentano le specie a noi più vicine e quelle dalle quali ci siamo separati in tempi più recenti. Nei circa cento milioni di anni di evoluzione dei mammiferi, la quantità di violenza letale è sempre aumentata, dallo 0,3% iniziale all’1,1% all’origine dei primati e all’1,8% all’origine dei primati superiori, per attestarsi intorno al 2% dei primi uomini. I valori percentuali sono riferiti al totale di tutte le forme di morte. Nelle specie che mostrano valori più bassi di violenza letale si può osservare spesso un più alto tasso di «ritualizzazione» dei combattimenti. Tali ritualizzazioni conducono infatti a risparmiare molte vite, pur nel quadro di un’alta conflittualità.
Potrà stupire il fatto che le scimmie antropomorfe siano più aggressive di altre specie, per esempio dei leoni o dei cosiddetti grandi predatori, ma si tratta di un dato noto da tempo. Tra di loro le grandi scimmie sono molto più aggressive dei grandi felini. Una delle possibili spiegazioni di tale osservazione è l’aumento nei millenni dell’incidenza della vita di gruppo e della difesa del territorio nei mammiferi. La vita di gruppo mette i vari individui quasi sempre a stretto contatto tra di loro e la territorialità implica che i diversi gruppi possano competere per l’utilizzazione delle diverse risorse disponibili. Le specie che hanno uno stile di vita solitario e un minor senso del territorio mostrano tassi più bassi di violenza letale.
È chiaro che la stima dei diversi parametri in gioco richiede molta attenzione e può prestare il fianco a molte critiche. Gli autori dello studio fanno notare però che i dati raccolti per le diverse specie non si discostano molto da quello che ci si sarebbe potuto aspettare sulla base di dirette osservazioni naturalistiche. Mostrano inoltre che la propensione per questo tipo di violenza sembra avere una grossa componente ereditaria, almeno tra le varie specie dei mammiferi, perché specie geneticamente più vicine mostrano valori più simili di quelli di specie imparentate più alla larga, anche se la genetica non è ovviamente l’unico fattore ed esistono molte condizioni esterne che possono alzare o abbassare questi dati di base.
Per quanto riguarda noi esseri umani, all’inizio della nostra evoluzione culturale, eravamo piuttosto aggressivi e in linea con i valori mostrati dai nostri cugini scimmioni. Poi le cose sono molto cambiate, drammaticamente direi, con alti e bassi che non possono essere certo spiegati con cambiamenti di natura genetica, ma piuttosto con le particolari condizioni al contorno. All’epoca dell’organizzazione in bande di incursori, nella fase detta convenzionalmente dei «cacciatori-raccoglitori», la violenza è salita di molto – anche al 30% – perché tali bande erano impegnate in continui combattimenti. Al momento invece, il tasso della nostra violenza letale è molto basso, ben 200 volte più basso di quello dei nostri antenati del Paleolitico.
Adesso siamo, almeno momentaneamente, una specie piuttosto tranquilla, anche se sempre suscettibile di improvvisi scoppi di aggressività e di crudeltà, come peraltro ben sappiamo. Questo significa che l’educazione, ma soprattutto l’invenzione di elaborate forme e assetti sociali, sono stati fattori di capitale importanza nel trattenerci dalla nostra innata furia omicida. La società è repressiva, si dice spesso, ma si tratta generalmente parlando di un’opera benedetta e di vasta portata, pur con grandi oscillazioni nel tempo e nello spazio. Se ci dimentichiamo le improbabili affermazioni secondo le quali gli esseri umani sono buoni di natura, non possiamo che essere fieri del cammino che abbiamo percorso nei millenni e in particolare negli ultimi secoli. Questo nonostante molti siano oggi convinti di vivere in una delle epoche più buie della storia.
Anche senza prendere in considerazione casi estremi e difficilmente interpretabili, il cammino della civiltà si presenta particolarmente ondivago e risente di diversi fattori, prime fra tutti la frammentazione del potere e le dimensioni delle formazioni sociali omogenee. La progressiva centralizzazione del potere esecutivo ha certamente influito positivamente nel ridurre la conflittualità fra gruppi sociali diversi, come ha influito la diffusione dell’istruzione e la codificazione dei principi del diritto che hanno portato alla formalizzazione dell’amministrazione di quella che noi chiamiamo giustizia. Questo è certamente migliorabile, ma tutto è sempre migliorabile. Molte analisi sociologiche e antropologiche contemporanee sembrano convergere su una interpretazione socio-politica-giuridica. La monopolizzazione da parte dello Stato dell’esercizio della giustizia e dell’uso «legittimo» della violenza appare il fattore fondamentale di quel processo che nel tempo ha abbassato la nostra aggressività intraspecifica e che ci ha per così dire «pacificati».
In conclusione, lo studio di cui stiamo parlando implica molto lavoro, ma le sue conclusioni sono in fondo lineari, anche se siamo sicuri che susciterà molte obiezioni da chi ama parlare. Rimangono però anche interrogativi scientifici che occorrerà affrontare, primo fra tutti il significato e la valenza dell’aumento di violenza letale nella linea evolutiva delle grandi scimmie e a quale altra loro caratteristica tutto ciò si accompagna. Sappiamo infatti che non esiste cambiamento genetico rilevante che abbia un unico effetto. Vale la pena infine rilevare come l’introduzione di misurazioni e valori numerici affidabili, può rendere abbordabili molte questioni precedentemente irrisolte e come sia fuor di luogo parlare di natura e di fatti di natura senza averli prima accuratamente studiati.