Corriere della Sera, 8 gennaio 2017
Le mani di Fathi, pescatore di mine
La mina di 7-8 chili è nascosta sotto una pietra. Per farla brillare basterebbe poggiare il piede sulla vicina piastra di alluminio, coperta dal fango e dall’erba bagnata dalle piogge degli ultimi giorni. La carcassa annerita di una camionetta dell’esercito agli ordini del generale Khalifa Haftar a pochi metri di distanza è la testimonianza del suo effetto letale. «Solo pochi giorni fa abbiamo perso quattro dei nostri soldati in uno scoppio», dice il capitano Atiah Fathi, 47 anni, di Bengasi, che una volta faceva il pescatore e adesso lo sminatore. «Prima usavo la gelatina, come chiamiamo le nostre bombe artigianali per cacciare i pesci. Ho imparato a maneggiare gli esplosivi sin da piccolo. Ma il problema è che questi costruiti dagli ingegneri dell’Isis sono più sofisticati». Fathi è una leggenda tra le unità del vecchio esercito regolare che in Cirenaica hanno scelto di obbedire ad Haftar. Privo di qualsiasi scudo protettivo, armato solo di una rugginosa pinzetta e di un coltellino dal manico di plastica, si avvicina all’ordigno, gli scava cauto attorno, lo estrae, poi armeggia con le dita nel composto colloso che tiene fermi i fili elettrici collegati all’otturatore. Tratteniamo il fiato, sorride. Sono tanti quelli come lui che ci hanno lasciato la pelle. I muri di Bengasi sono tappezzati di manifesti e scritte inneggianti al loro sacrificio. «Onore a Tareq Saiti e Abdallah Tuati, morti per rendere sicura la nostra città», si legge in quelli più recenti.
La testa del serpente
«Eravamo amici. Ma gli è andata male. Basta un attimo di distrazione», dice lui. «Siamo tutti nelle mani di Allah» e intanto taglia i fili elettrici con mossa rapida. «Ecco! Finito, non può più nuocere», esclama, mentre con mosse energiche sbatte l’ordigno su una pietra per liberarlo dal fango. Siamo con lui sul fronte del quartiere di Ganfuda, come chiamano l’enclave principale nel centro di Bengasi ancora tenuta dalla guerriglia jihadista: una meteora di gruppi che fanno capo all’Isis, assieme ad Ansar al Sharia, ad alcune brigate della rivoluzione del 2011 legate all’islamismo radicale e alla stessa Al Qaeda. Una zona di 6 chilometri quadrati circondata dall’esercito con barricate, torrette di guardia, pattuglie motorizzate. «Qui sta la testa del serpente. Vi sono nascosti i capi dell’Isis e dei gruppi di Ansar al Sharia che nel settembre 2012 hanno assassinato a Bengasi l’ambasciatore Usa Christopher Stevens», dicono gli ufficiali di Haftar dalle postazioni che comandano la prima linea. Il loro discorso tende a semplificare, ma rende l’idea. Per loro qualsiasi oppositore è Isis. Anche se nei quartieri circondati vivono civili e gruppi armati nati ai tempi della rivoluzione del 2011 che vedono in Haftar la restaurazione della vecchia dittatura di Gheddafi.
Quanti sono gli estremisti islamici? Difficile dire. Una serata con temperature vicine allo zero i soldati ci accompagnano al fronte. La zona ricorda da vicino le strade di Sirte devastate dai combattimenti l’estate scorsa. Palazzi devastati, container del porto e camion utilizzati come barricate, depositi di munizioni e fabbriche di autobomba nelle cantine, veicoli carbonizzati: almeno un terzo di questa città abitata da 800 mila persone è paralizzato dai combattimenti. «Dall’inizio dell’operazione Karameh, Dignità, che nel maggio 2014 ha costretto i radicali islamici sulla difensiva, il nostro esercito ha continuato ad avanzare. Prima stavamo sulle montagne della Cirenaica. Poi abbiamo preso l’aeroporto di Benina, quindi siamo entrati a Bengasi. Ora l’Isis spadroneggia solo in due zone: Ganfuda e quella del Mercato del Pesce con il quartiere di Sabri. In tutto non più di 350-400 uomini con altrettanti civili, pronti a usare come scudi i nostri soldati presi prigionieri», raccontano gli ufficiali. Bengasi sta con Haftar. La popolazione non ne poteva più di violenza. Le organizzazioni per i diritti umani mostrano le foto delle centinaia di assassinati dall’Isis – avvocati, giudici, professori, giornalisti – dal 2012 al 2014. Hanan Sharif, responsabile di una Ong per la difesa delle donne, mostra gli elenchi e le foto delle vittime. Donne, uomini, anziani, persino bambini decapitati, uccisi per la strada a sangue freddo, ridotti a brandelli dalle trappole bomba. In alcuni casi i loro corpi sono stati legati a due auto fatte partire a tutta velocità in direzioni opposte, come al tempo delle torture medioevali, quando si usavano i cavalli per smembrare le vittime. In 10 giorni a Bengasi tanti ci hanno fermato per strada per raccontare i crimini jihadisti. «Oggi Bengasi è più sicura di Tripoli. Non ci sono più rapimenti, gli assassini si contano sulle dita di una mano», dice Abdelkader Kadura, noto docente di diritto all’università ridotta in macerie.
Bombe, Modugno e caffè
Il 5 gennaio siamo stati svegliati da intensi colpi d’arma da fuoco verso le sette di mattina. Abbiamo appreso poi che una ventina di jihadisti erano sfuggiti all’accerchiamento e a bordo di gipponi correvano sulla litoranea che conduce ai terminali petroliferi di Brega e Ras Lanuf. L’intervento dell’aviazione li ha eliminati coi missili. In genere i collegamenti tra le loro due enclave avvengono via mare, 5 km di onde davanti all’entrata del porto, grazie a veloci barchini dotati di potenti fuoribordo. In certi casi, per spostare uomini e munizioni, hanno utilizzato moto d’acqua. Il quartiere del mercato del pesce è prospiciente a vie trafficate, scuole funzionanti, negozi aperti. C’è anche l’edificio del consolato italiano, oggi contesa terra di nessuno: i duelli tra cecchini sono continui dai tetti dei palazzi. Di notte l’esercito lo illumina con i riflettori per evitare sortite nemiche. Un’ala appare distrutta. Eppure, solo una cinquantina di metri più a sud, si trovano un mercato rionale e ristoranti coi tavolini per la strada. Al «Caffè Lavazza» la radio diffonde classiche canzoni italiane, Modugno impera con «Volare». «I bengasini appena possono dimenticano la guerra», aggiunge Kadura. Ma è difficile ignorare i rombi d’artiglieria, i colpi dei mitra. Il «Milleduecento letti», come viene chiamato il maggiore ospedale (anche se ne ha meno di 350) ha subito 4 attentati bomba nelle ultime settimane, specie nei due piani riservati ai soldati feriti. E i dottori minacciano lo sciopero se i controlli agli ingressi non verranno rafforzati.