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 2017  gennaio 08 Domenica calendario

Duecento anni fa il barone Drais mise in strada la prima bicicletta

Laufmachine: macchina per correre. La chiamò così il barone Karl Drais quando la mise in strada nel 1817 a Mannheim. Di una semplicità assoluta, ma dopo l’invenzione della ruota è stata forse tra le maggiori scoperte nella storia della tecnologia. Perché prima che nascesse la bicicletta ci voleva la forza degli animali da traino, e l’unica alternativa alle carrozze o al trasporto a dorso di animale – tutte variabili piuttosto costose, tanto che il termine “cavaliere” è rimasto a indicare i personaggi di prestigio – era di muoversi a piedi. E perché attorno alla bicicletta sono fiorite altre innovazioni, dall’automobile all’aeroplano, nonché avanzamenti sociali.
Si dice che la necessità aguzza l’ingegno. Nel 1815 ci fu un’immensa eruzione del vulcano Tambora in Indonesia e le sue ceneri si sparsero in tutto il mondo: i raccolti agricoli, che già scarseggiavano da un paio d’anni, si ridussero drasticamente, e nel 1816 gli animali morivano per carenza di cibo. Per cercare di sopperire il giovane Karl si mise a cercare qualcosa che potesse sostituire il cavallo. Così sfornò il primo biciclo. Che fosse un colpo di genio è testimoniato dal fatto che la Laufmachinevarcò subito i confini della Germania e fu nota in Francia col nome di “draisienne” e in Inghilterra come “draisine”, in omaggio al suo primo costruttore, alla cui fervida inventiva si deve anche la prima macchina per scrivere a tastiera nonché il primo tritacarne. Come accade per tutti i nuovi prodotti, interessò anzitutto il mercato del lusso, tanto che in lingua inglese molti la chiamarono “dandy horse”, ovvero “cavallo per elegantoni”. E accese la fantasia: da qualche anno già c’erano le locomotive a vapore (nate tra il 1804 e il 1814 in Inghilterra), meraviglia della tecnica ed espressione di forza, ma erano apparecchi macchinosi e voluminosi e per giunta si muovevano su rotaie. Invece la Laufamchine era leggera, versatile, adatta all’uso di un singolo. Il primo suo viaggio avvenne il 12 giugno 1817, in un sob- borgo di Mannheim. Circa 8 km in un’ora. Quel prototipo era in legno, non aveva pedali ma era dotato di manubrio. Consentiva di andare veloci come di corsa, ma con minore sforzo: si stava seduti e si spingeva coi piedi per cui fu chiamato “velocipede”.
Molti presero a costruirne, in Europa e negli Usa. Non avevano ancora copertoni di gomma e le ruote erano ferrate sul battistrada, così, per quanto i costruttori si ingegnassero a fornire sellini imbottiti, non doveva essere molto comodo cavalcarli sulle strade sterrate e piene di buche. Tra i nomignoli attribuiti loro in Inghilterra vi fu quello di “bone shaker”, “scuotitore di ossa”. I velocipedisti preferivano mantenersi ai lati delle strade. Ne derivarono diversi incidenti, tanto che in alcune città il nuovo strumento fu vietato. L’idea comunque ormai s’era imposta e tra il 1863 e il 1864 a Parigi comparvero i pedali, dapprima collegati al perno della ruota anteriore, come ancora si vede in alcuni tricicli per bambini. Non è totalmente chiaro a chi si possa attribuire la loro invenzione, ma tra gli studiosi che partecipano all’International cycling history conference, che si svolge annualmente dal 1990 in città diverse e che nel 2017 avrà luogo a Mannheim, prevale l’idea che il pedale sia stato introdotto da Pierre Lallement, al cui nome è stata dedicata una pista ciclabile a Boston, vicina alla casa dove il francese morì nel 1891, dopo aver cercato invano di far fortuna oltre oceano. La scoperta del pedale scatenò la passione per la velocità. E si sviluppò l’industria. Negli Stati Uniti, negli anni ’70 Albert A. Pope fece incetta di brevetti: gli si attribuisce l’introduzione della catena di montaggio, teorizzata da Frederick Taylor e popolarizzata più tardi da Henry Ford. Ma pedalare da quell’altezza aveva i suoi inconvenienti: cadere era pericoloso e causava danni gravi. Si cercò allora il sistema per consentire di raggiungere discrete velocità ma senza rischi. Per questo fu sviluppata la trasmissione a catena che agisce sulla ruota posteriore e consente di variare il rapporto tra pedalata e giri della ruota motrice grazie alla differenza di diametro degli ingranaggi. Così negli anni ’80 si configurò la bicicletta come oggi è conosciuta. E assunse anche il suo nome attuale, che è un diminutivo probabilmente perché il biciclo rinunciava alla ruota grande.
A fine ’800 avvenne un altro avanzamento rivoluzionario: un veterinario scozzese trapiantato in Irlanda, certo John Scott Dunlop, per rendere più sicura la presa sulla strada e più confortevole la cavalcata introdusse gli pneumatici in gomma gonfiabile. Poi Dunlop passò la sua invenzione al direttore dell’Associazione dei ciclisti irlandesi, Harvey Du Cross che per riconoscenza chiamò “Dunlop” l’azienda che fondò e ben presto si ingigantì sino a divenire una delle prime multinazionali, perché intanto cominciava a scorrazzare l’automobile.
Lo sviluppo dei freni ha una storia tutta sua: fin dai primi modelli di velocipede vi furono freni “a cucchiaio” che premevano contro la ruota. Poi se ne introdussero altri tipi, tra cui quello a ganasce che agisce sul cerchione: ma questo in fondo costituisce il passo previo al freno a disco, che si diffuse per l’uso negli aeroplani. Ma il legame più diretto con l’aereo è dato da due fratelli che avevano una piccola officina meccanica a Dayton (Ohio) in cui fabbricavano biciclette. Ne ammiravano la leggerezza e l’equilibrio, tanto da pensare che questi concetti potessero trasferirsi a un mezzo meccanico capace di realizzare il vecchio sogno di vincere la gravità: senza la bicicletta i fratelli Wright non avrebbero mai costruito la prima macchina volante.
Tutto questo avveniva agli albori dell’era del trasporto meccanizzato. Ora, quando il mondo è invaso da motori (e dal loro rinquinamento), la bicicletta torna in auge: è il mezzo privilegiato per le città sostenibili. Se ne producono modelli ultraleggeri, smontabili, a pedalata assistita, con carrello, con parapioggia, da città, campagna o montagna... A 200 anni dalla nascita è ancora fattore di progresso.