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 2017  gennaio 07 Sabato calendario

I ricordi di Bartali tra ruggine e furti. Così il ciclismo perde la memoria

FIRENZE L’È TUTTO sbagliato, caro Ginettaccio, anche stavolta.
Il museo dedicato a Bartali sta morendo pian piano, ma in modo inarrestabile. Sorge a Ponte a Ema, sulla Chiantigiana, di fronte alla casa che fu del grande campione fiorentino e sin dalla sua nascita, nel 2006, è stato più sopportato che voluto. Oggi quel che avrebbe dovuto essere il sacrario alla memoria del mitico avversario di Fausto Coppi è un cumulo di cerchi arrugginiti, pezzi cui manca totalmente manutenzione, è la storia di un abbandono infinito.
Vivacchia, è aperto appena tre giorni a settimana, non ha custodi, nessuno sa bene dove sia e nemmeno le indicazioni stradali, quasi inesistenti, aiutano a rintracciarlo. La struttura, gestita dal Comune di Firenze, è stata inserita nel circuito dei musei cittadini e campeggia quasi trionfalmente sul sito internet della città. Ma il contributo pubblico alla sua esistenza finisce là. Il resto, cioè il possibile, lo fa l’Associazione amici del museo Bartali, un gruppo di volontari cui però l’entusiasmo, oltre che le forze, stanno venendo meno.
Peccato, proprio nell’anno in cui il Giro d’Italia, nell’edizione numero cento, nel prossimo maggio, passerà sulle strade di Gino, nella tappa con partenza da Ponte a Ema e con arrivo a Bagno di Romagna, una delle più attese. L’associazione, presieduta da Andrea Bresci, ha lanciato una petizione per salvare quel che resta, quel che i ladri non hanno portato via, quel che il tempo non ha ancora dissolto. Eppure in quelle sale, donate dalla Casa del Popolo al Comune di Firenze, c’è la storia, e non solo quella di Bartali. C’è la coppa Desgrange vinta da Gino al Tour. La maglia della Bartali, gialla e ancora sporca di bellezza. Un antico “bicicletto” Columbia-Singer del 1899. Una “Bartali”, costruita dai fratelli Margherita di Celle Ligure, usata da Gino negli ultimi anni di carriera. C’è la maglia della SS Aquila, la società nella quale Bartali nacque corridore e di cui è stato presidente onorario tutta la vita, è là col bianco e il nero. Tutto muore, ricorda Bresci, «perché c’è bisogno di manutenzione, di interventi continui, andando avanti così il museo chiuderà perché non c’è interesse affinché viva». La petizione, oltre che al Comune, si rivolge alla Federciclismo, rimasta sempre passiva sulla materia. Ma il rilancio del museo non figura in nessuno dei programmi dei candidati alla presidenza (l’assemblea elettiva si terrà a Rovereto il prossimo 14 gennaio, quasi scontata la rielezione del presidente uscente Renato Di Rocco, in sella dal 2005). Il ciclismo, quello vero, quello praticato, quello attivo, del museo non sa o non vuole sapere nulla. Nei giorni dell’ultimo Giro, dopo la crono nel Chianti, era prevista una visita di una delegazione di corridori. Saltata. Utile sarebbe, poi, il coinvolgimento di squadre professionistiche, magari di sponsor. Ma anche qui nisba, e figuriamoci, nell’anno in cui l’Italia ha perso anche l’ultimo pezzo di World Tour e il suo sponsor più longevo, la Lampre, dopo oltre vent’anni di presenza, ha deciso di farsi da parte: la prosecuzione, con altri mezzi, della storia del gruppo sportivo diretto da Beppe Saronni ora è nelle mani di un gruppo di Abu Dhabi, che del ciclismo italiano ben poco sa, e ben poco, s’immagina, vorrà saperne.
La petizione si rivolge al sindaco di Firenze, Nardella, titolare della delega alla cultura. I tempi sono piuttosto stretti. Si vorrebbe il museo in buone condizioni prima che il Giro, passando di là il prossimo 17 maggio, scopra quanto la memoria del ciclismo, che è anche la memoria del paese, conti poco. E nel discorso, in qualche modo, rientra anche il bellissimo Museo del Ghisallo, il più importante luogo di memoria della bicicletta in Italia, aggrappato sulle ultime balze di una delle cime più simboliche della storia della bicicletta. Collocato accanto al santuario dei ciclisti, in un luogo frequentatissimo in tutte le stagioni da cicloamatori e da amanti della fatica su due ruote, il museo, voluto fortemente una decina di anni fa da Fiorenzo Magni, ha una particolarità che lo rende probabilmente e purtroppo unico: è chiuso quasi sei mesi l’anno, da inizio novembre a metà marzo. Se questo è amore.