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 2017  gennaio 07 Sabato calendario

Gino Paoli: «Nessun complotto quella sera maledetta in cui ho perso il mio amico Tenco»

ROMA NELLA notte tra il 26 e il 27 gennaio del 1967 uno sparo nella notte mise fine a ogni illusione sulla “leggerezza” del mondo della canzone. La mattina seguente l’Italia scoprì che Luigi Tenco, l’inquieto, scomodo, perennemente disadattato cantautore, dopo essersi esibito di malavoglia nella seconda serata del festival di Sanremo, era morto suicida, secondo il frettoloso e impreciso referto della polizia, guidata dal commissario Molinari, iscritto alla loggia massonica P2, nella stanza 219 dell’hotel Savoy. Non aveva nemmeno trent’anni. E soprattutto non sembrava possibile che uno come lui potesse aver deciso di togliersi la vita dopo essere stato bocciato al festival. Troppo poco, troppo banale per uno dei “genovesi”, uno dei ribelli e iconoclasti cantautori che nei primi anni Sessanta avevano stracciato le convenzioni del bel canto, raccontando con voci desolate e umane l’altra faccia del boom economico. Sta di fatto che quella notte qualcosa successe davvero, anche se l’imperizia e gli incredibili errori commessi nell’indagine hanno alimentato nel corso degli anni ogni possibile teoria complottista. Si è detto di tutto, che il biglietto lasciato fosse autentico solo nelle prime righe, e il resto contraffatto ad arte per giustificare un suicidio dovuto alla delusione della bocciatura, si è detto che non fosse da solo, si è ipotizzata una folle roulette russa, altri addirittura un coinvolgimento dei servizi segreti per non meglio identificate azioni di spionaggio in cui Tenco sarebbe stato coinvolto, suo malgrado. Follie, certo, ma di stranezze ce n’erano davvero, a cominciare da una circostanza: quella notte nessuno ha sentito lo sparo, eppure a dormire nelle camere accanto c’erano altri ospiti dell’albergo, tra cui Lucio Dalla e Sandro Ciotti. Le poche e convulse cronache certe ci raccontano di un Tenco decisamente contrariato per l’eliminazione, anche perché per portare la sua Ciao amore ciao era dovuto scendere a qualche compromesso, il testo della canzone inizialmente più duro, antimilitarista, era stato cambiato. In più la commissione artistica del festival, composta da Ugo Zatterin, Lello Bersani, Gianni Ravera e Lino Procacci che aveva il potere di ripescare una canzone, optò per La rivoluzione cantata da Gianni Petenati, lasciando definitivamente fuori quella di Tenco. Del resto quell’anno gli illustri eliminati furono tanti: Marianne Faithfull, Sonny and Cher, Milva, Caterina Caselli, Antoine. Contrariato sì, ma non così depresso, al punto che, quando Tenco decise di tornarsene in camera, nessuno trovò nulla da obiettare, neanche Dalida, che in quel periodo aveva con Tenco una relazione sentimentale. «Oggi avrebbe quasi ottant’anni, ne aveva tre o quattro meno di me» ricorda Gino Paoli, l’amico fraterno, quello che si è sempre battuto per lui, per preservarne la memoria nel modo più rispettoso.
Ricorda dov’era quando venne a sapere della morte di Tenco?
«Mi chiamarono quella stessa notte per dirmelo, ma io non ci volevo credere, era fuori da ogni possibilità, non era da lui, non corrispondeva a niente che riguardasse Luigi. Per me era diverso, io sì, ci avevo provato, quattro anni prima, anche se per un caso assurdo non m’era riuscito, e ancora porto addosso il proiettile, ma Luigi no, quando successe stava fuori della mia stanza all’ospedale e piangeva, diceva “queste cose non si fanno, io non le faccio”».
Le vicende di quella notte hanno generato una ridda di ipotesi contrastanti. Il referto ufficiale parla di suicidio, ma di cose che non tornano ce ne sono….
«Io una mia idea l’ho sempre avuta. Luigi quella sera non era regolare, e l’abbiamo pensato tutti noi amici che lo conoscevamo bene. Anche l’esibizione al festival è stata assurda. Di solito Luigi era intonato, quadrato, quello che vedemmo cantare non era lui, era come se avesse preso delle cose. Mi tornò in mente quando anni prima andò in Svezia con Piero Ciampi e Giulio Frezza, andarono con le chitarre pensando di mantenersi così, e invece dovettero lavarne di piatti. In quell’occasione scoprirono che i barboni del posto si sbronzavano velocemente con un solo bicchiere di whisky e due pillole di un sonnifero che si chiamava Pronox, poi lo provammo tutti, era la prima forma di sballo, di droghe vere ancora non ce n’erano. Ma mi ricordo che dava una sensazione di estraneità, come se quello che facevi lo facesse un altro. Mi è tornato in mente quando ho saputo di Luigi. Ecco com’è andata, una stronzata, magari un colpo di teatro pensato male e finito peggio. Anche la lettera che ha lasciato… non corrisponde, Luigi era un pragmatico, quella roba lì se l’ha scritta lui vuol dire che era ubriaco oltre ogni limite».
Si direbbe che oggi viviamo tempi più cinici di allora, eppure successe una cosa che forse oggi sarebbe impensabile. Il festival è andato avanti, non si è fermato e la sera successiva finì come se niente fosse con la vittoria di Iva Zanicchi e Claudio Villa. Non le sembra assurdo?
«Del tutto assurdo. Anche le fabbriche si fermano se muore un operaio. Posso solo dire che se io fossi stato lì in gara il festival non sarebbe andato avanti. Mi ricordo che c’era Lucio Dalla, lui cantò Bisogna saper perdere, lo trovai incredibile, in quel periodo eravamo molto vicini, ma quando l’ho visto l’ho appiccicato al muro. Poi m’è passata, ho capito che era in stato confusionale. Era nella stanza accanto, e ne rimase sconvolto a lungo, ne risentì per molto tempo».