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 2017  gennaio 07 Sabato calendario

«Così inventai il mio cinema». Intervista a Bernardo Bertolucci

Un’intervista con Bernardo Bertolucci a casa sua a Roma. Sono stato tre settimane a Roma con Paul Haggis e Mila Kunis per girare un film, e con noi c’era anche Ashton Kutcher: lui e Mila erano perseguitati dai paparazzi. Io e la mia assistente abbiamo festeggiato il Ringraziamento nella loro villa. Poi Tiziana, la mia traduttrice italiana, mi ha invitato a cena a casa di Bertolucci, che è suo amico. Ho fatto quest’intervista prima di cena. Ci siamo seduti nel suo studio, Bertolucci era in sedia a rotelle.
Avrai già raccontato di te milioni di volte, degli inizi da poeta e poi da regista, ma a me interessa comunque, perché ho studiato sia scrittura creativa che regia. M’interessa il periodo in cui scrivevi poesie, giovanissimo, prima di lavorare con Pasolini, e da lì arrivare alla regia, dico bene? O cos’altro è successo? Tuo padre era uno scrittore?
«Certo. Mio padre era un poeta, abbastanza conosciuto in Italia. Insegnava nelle scuole ed era un poeta. Per me è stato naturale iniziare a scrivere poesie. Poi a ventun anni ho pubblicato un libro, ma già prima di allora Pasolini era un grande amico di mio padre, perché mio padre gli aveva fatto pubblicare il primo romanzo, Ragazzi di vita. Pasolini si è trasferito nello stesso palazzo in cui abitavamo noi, e un giorno, quando avevo vent’anni, l’ho incontrato davanti la porta e mi ha detto: “Ehi, a te piacciono i film, giusto?” Io ho detto di sì, e lui ha continuato: “Perché girerò un film.E voglio che mi fai da assistente alla regia”. E io: “Cosa?”. “Sì, faccio un film, si chiamerà Accattone”. Io: “Ma Pier Paolo, non ho mai fatto l’aiuto regista”. E lui: “E io non ho mai diretto un film”».
È stato il tuo primo film.
«Sì, ma ero già appassionato di cinema. Anni prima ero andato alla Cinémathèque Française a Parigi, agli esordi della Nouvelle Vague. Erano gli inizi, gli anni del primo Godard, e di Truffaut... Avevo diciotto, diciannove anni, avevo superato l’esame di maturità, e i miei mi avevano regalato un po’ di soldi. Arrivato a Parigi, invece di andare al Louvre, andavo tutti i giorni alla Cinémathèque, che è stata l’università di tutti, Godard, Truffaut, Rohmer eccetera. Tutti loro. Amavo quel tipo di cinema. A diciannove anni a Parigi ho visto Fino all’ultimo respiro».
Che anno era?
«Aspetta, te lo dico con esattezza... 1960».
Wow.
«Ho già più di sessant’anni, quello è stato l’inizio».
Così è iniziata.
«Così è iniziata, già. Lavorare con Pasolini era imparare a dirigere. Vedevo un uomo fantastico, un genio che scriveva poesie, romanzi, saggi. Era fantastico, non so come facesse... era immenso, incredibile. Lavorava come un matto ma non sembrava che lavorasse. E la cosa più bella è stata vedere quest’uomo inventare il suo cinema. Pasolini non aveva una cultura cinematografica come la mia, che andavo sempre a vedere film. E io vedevo un regista nascere davanti ai miei occhi, e non un regista qualunque... stiamo parlando di Pasolini».
Cosa faceva sul set di diverso rispetto a un regista già rodato? Non usava attori professionisti e roba del genere?
«Niente attori professionisti. Ma era sicuro di quello che faceva. Il suo modello era la Giovanna d’Arco di Dreyer e quei meravigliosi primi piani dei monaci. Diceva: “Non conosco il cinema, per cui continuo a seguire la mia arte e conoscenza”. Diceva: “La cosa che mi piace di più è la pittura toscana del Quattrocento, che non ha niente di psicologico, e per certi versi è molto epica”. E un giorno, la seconda settimana di riprese, ha detto: “Qui voglio usare un dolly”. E ho visto queste rotaie che venivano sistemate per il carrello, i macchinisti che le mettevano, ed è stato il primo movimento del film. Poi il film ha avuto un enorme successo. Pasolini aveva scritto un soggetto che si chiamava La Commare secca, ma in quel momento voleva fare Mamma Roma. Il produttore che aveva i diritti del soggetto ha chiesto a Pier Paolo: “Ok, tu non vuoi farlo, quindi a chi lo facciamo fare?”. E lui ha detto: “Fallo fare a Sergio”, ovvero Sergio Citti, che aveva già lavorato con lui e conosceva alla perfezione il romanesco, “e a Bernardo”. Ho scritto la sceneggiatura insieme a Sergio Citti, che era una persona brillante, e in un mese, perché i tempi all’epoca erano velocissimi, avevamo la sceneggiatura pronta. Il produttore l’ha letta, e gli è piaciuta moltissimo. A quel punto mi ha chiesto: “Vuoi dirigerlo, giusto?”. Io: “Sì”. Lui: “Ok, lo dirigerai tu”. Le gambe mi tremavano, e tre mesi dopo ho fatto il mio primo film. La sceneggiatura era pensata per Pasolini e quando mi hanno chiesto di dirigerlo volevo cambiare tutto. Per cui il milieu, l’ambientazione era di Pasolini, ma lo stile era completamente mio. Anche perché volevo differenziarmi da Pasolini. Ed è il motivo per cui nei miei film c’è sempre la macchina da presa in continuo movimento».
Il movimento nei tuoi film è nato da qui?
«Sì».
Per usare la macchina da presa in modo diverso da Pasolini?
«Sì, in modo completamente diverso. La differenza era quella».
Già a quell’età l’avevi capito. Wow. Ed era la prima volta che dirigevi degli attori?
«Eh, sì».
E com’è stato? Che cosa hai imparato da questa prima volta?
«In realtà non erano attori. Erano non attori, come nei film di Pasolini, era gente presa dalle banlieue, dalle periferie, le periferie povere. Anche rispetto alla troupe, io, con i miei ventun anni, ero il più giovane. Ero più giovane del direttore della fotografia, ero il più giovane di tutti».
Prima eri andato a Parigi per studiare, ma poi di fatto non hai mai studiato cinema.
«No, non ero andato a Parigi per studiare. Ero andato per vedere cose che non avevo visto, film alla Cinémathèque».
A me interessa esattamente questo: capire come nasce un grande regista, quali sono i suoi primi passi.
«Non ho fatto nessuna scuola. E per moltissimo tempo, non avendone fatta nessuna, dicevo: “No, la scuola è uno schifo”, e cose del genere. Poi ho capito che uno deve imparare cosa significa essere un regista nella realtà delle cose».
«Ultimo tango a Parigi» cos’era, il tuo quarto film? Il terzo o il quarto?
«No, aspetta... fammi pensare... Doveva essere il sesto film».
Sesto film, ok, per cui dovevi essere un po’ più grande, dovevi avere quasi trent’anni, giusto?
«Sì, Ultimo tango a Parigi l’ho fatto dieci anni dopo il mio primo film».
L’altra volta mi avevi detto che prima delle riprese dicevi a Brando: «Riuscirò a ottenere da te qualcosa di molto personale».
«Sì».
E lui ha detto: «No che non ci riuscirai».
«In realtà mi ha detto: “Sei sicuro?” (Ride). Come a dire: sei capace di farlo? E di fatto dopo aver visto il film ce l’aveva con me. Alla fine della prima del film era un po’ triste».
Perché secondo te?
«Non l’ho mai capito. Credo fosse arrabbiato per il fatto che nel film ci fossero così tanti... non dico suoi segreti, ma pensieri intimi, come se non si fosse reso conto di cosa mi stava dando. Perché non c’era una vera e propria sceneggiatura».
E com’era De Niro?
«Mi ricordo quando l’ho incontrato la prima volta, l’avevo già visto una volta alla William Morris a Los Angeles, ma poi sono andato a New York, ed era con Diahnne Abbott, e ha portato me e mia moglie a vedere Bob Dylan al Madison Square Garden. E me lo ricordo benissimo, eravamo su un taxi che andavamo da Midtown allo Square Garden e De Niro ha detto al tassista: “Ehi, no, non girare qui, devi girare alla prossima”. E poi ha aggiunto: “Ho appena fatto il tassista a New York, ho studiato per farlo. Per cui non sgarrare con me”. Lo ha detto perché aveva appena fatto Taxi Driver, ed è stato divertente. Lo diceva tutto serio. E poi è venuto a fare Novecento in Emilia, che è il posto dove sono nato, vicino Parma, e la prima settimana sembrava non avere idea di chi fossi. All’inizio è stato molto complicato, perché ero lì con lui e Depardieu, ed erano uno l’esatto contrario dell’altro. Non voglio offendere nessuno dei due, ma erano così: Bob aveva continuamente bisogno di parlare, Gérard aveva bisogno di una spinta e faceva quello che doveva fare. Si buttava dentro. Ma è qualcosa con cui si nasce, non lo sai da dove arriva, è una specie di talento che ti permette di tenere vivo il personaggio giorno dopo giorno. Una disciplina che ti permette di dare continuità nel sentimento che prova il personaggio, anche quando non è un sentimento piacevole. È come se il personaggio si lamentasse tutti i giorni...».