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 2017  gennaio 07 Sabato calendario

La mensa, le telefonate e i panni stesi alle inferriate. Tra le donne senza nome rinchiuse a Ponte Galeria

ROMA Su quarantotto donne, quasi la metà sono nigeriane: ventidue. Poi ci sono otto cinesi, quattro albanesi, tre sorelle sedicenti montenegrine, due cubane. Le rimanenti nove provengono da altrettanti Paesi sparsi per il mondo. L’ultima, iraniana, è arrivata l’altro ieri. Aspettano, pazienti e disciplinate, rassegnate a un destino incerto. Una su due – secondo la media degli ultimi anni, qui come altrove – verrà rimpatriata; l’altra tornerà alla vita clandestina.
Il Centro di identificazione e espulsione di Ponte Galeria, alle porte di Roma, è uno dei quattro attualmente attivi in Italia. Aperto a metà, la sola sezione femminile, perché quella maschile è stata resa inagibile dalla rivolta del dicembre 2015 e dev’essere ristrutturata; si attende lo svolgimento della gara d’appalto per stabilire chi dovrà effettuare i lavori.
Adesso le donne hanno più spazio, i posti disponibili sarebbero 125. Sono trattenute in attesa di un allontanamento coatto che non si sa se né quando avverrà, dormono nelle camerate da sei che grazie ai murales colorati e le scritte lasciate dalle precedenti ospiti sono perfino allegre rispetto al contesto, mangiano alla mensa, telefonano quanto vogliono, frequentano la biblioteca, godono di un’assistenza sanitaria che ogni giorno, dalle 8 alle 14, è garantita dal personale medico della Asl di zona, oltre al presidio fisso 24 ore su 24. Ma non possono uscire. E la struttura in ferro e cemento, con le gabbie e le inferriate dove si appende il bucato, richiama inevitabilmente l’atmosfera di un carcere. Anche se non ci sono detenuti, bensì trattenuti. Qui arrivano le persone senza permesso di soggiorno identificate solo con impronte digitali e foto; ma per rispedirle nel Paese d’origine bisogna dare loro un nome e una nazionalità certa, riconosciuta dallo Stato che dovrebbe riaccoglierle. Il che non è affatto scontato, anzi. Tutto dovrebbe avvenire entro 30 giorni, prorogabili fino a 90, dopodiché se non riesce a farle partire le «irregolari» vengono rimesse in strada con un ordine di lasciare l’Italia in una settimana. Cosa che normalmente non fanno, e così diventano (o tornano a essere) clandestine.
Patrizia, Francesca e Maddalena sono tre sorelle – rispettivamente di 30, 19 e 18 anni – prelevate in un campo rom di Aversa il 13 dicembre; sostengono di essere nate in Italia da una madre montenegrina morta e un padre che le ha abbandonate quando Patrizia era una bambina. Ora è una donna matura e dice: «Non sono mai andata a scuola ma ho imparato l’italiano, non so scrivere, solo un po’ leggere; vivevamo vendendo roba nei mercati dell’usato, vorrei la cittadinanza italiana anche perché in Montenegro non siamo mai state e non conosciamo nessuno». Un racconto che non c’è modo di verificare; quasi certamente il Montenegro non le farà entrare e tra un paio di mesi le tre donne torneranno al loro campo, fino al prossimo controllo.
Per le nigeriane il discorso è diverso: tutte hanno chiesto asilo politico, sebbene in ritardo, e la permanenza prima della risposta dei giudici può arrivare fino a un anno. Ma Franca, che parla con spiccato accento napoletano, perché lì viveva e sostiene di avere un fidanzato italiano disposto a sposarla, confessa che a lei l’asilo serve solo per restare: «Prima non l’ho chiesto perché non mi serviva; ho fatto 9 mesi di carcere per spaccio di stupefacenti, che ne sarà della mia vita non lo so». Non lo sa nessuno, come nessuno sa come finiranno le altre africane arrivate su cui pesa il sospetto che siano vittime della «tratta» che favorisce la prostituzione in Italia. Sarebbe un titolo per ottenere la protezione internazionale che garantisce un soggiorno di cinque anni, ma denunciare i trafficanti non è facile, e forse qualcuna crede sia meglio tornare libere, seppure clandestine, e sopravvivere come si può.
Le cinesi sono entrate quasi tutte con un visto turistico, si sono fermate dopo la scadenza per lavorare nei circuiti nascosti dei connazionali. «È un fenomeno in crescita nell’ultimo anno perché in occasione dell’Expo la Cina ha aumentato la concessione dei visti», spiega la funzionaria del Senato Vitaliana Curigliano, che accompagna il presidente della commissione Diritti umani Luigi Manconi nella visita al Cie. Le condizioni sembrano migliorate rispetto alla precedente ispezione, ma il problema resta il limbo di un acronimo dove tutti si concentrano sull’ultima lettera, la «e» di espulsione; prima però bisogna superare l’ostacolo della «i», l’identificazione, che troppo spesso si rivela insormontabile.