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 2017  gennaio 06 Venerdì calendario

La riscossa delle province, ora vogliono soldi

Poteva essere più triste la prossima domenica, per le 38 Province che l’8 gennaio dovranno rinnovare i consigli. Poteva esserlo, se il 4 dicembre fosse passato il referendum costituzionale che avrebbe cancellato quella parolina che fa capolino da sempre nell’articolo 114. Testuale: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato». Senza più quelle tre sillabe, della parola «Pro-vin-ce», la loro sorte sarebbe stata prima o poi segnata. Spinte sull’orlo del baratro dalla legge che porta il nome di Graziano Delrio, faticosamente approvata nemmeno tre anni fa, sarebbero precipitate definitivamente nell’abisso a causa della riforma della Costituzione. Ora fortunatamente abortita.
Invece adesso, dopo gli sfottò, dopo i disperati quanto vani tentativi di resistere, sperano. «Non abbiamo brindato per la vittoria del No», ha garantito all’indomani del voto il presidente dell’Unione delle Province Achille Variati, sindaco di Vicenza nonché presidente della locale Provincia. Nessun tintinnìo di bicchieri, neppure un sommesso «urrà».
Ma è un fatto che subito dopo, forti della schiacciante vittoria del niet popolare alla riforma, le Province abbiano ripreso a rumoreggiare. Non avevano mai smesso, per la verità, ma ora continuano con rinnovato vigore. Prima un accorato appello al garante della carta costituzionale, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al quale hanno ricordato di essere ancora «incardinate nella struttura costituzionale». Al pari del Senato, delle Regioni intoccabili, e perfino del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, miracolosamente resuscitato come Lazzaro quando il sepolcro era già serrato. Con uno straziante grido di dolore: «Siamo allo stremo, senza soldi andremo tutte in dissesto dal primo gennaio 2017». Seguito dall’elenco delle ferite inferte loro in questi due anni, grondanti di sacrifici. Ben 650 milioni tagliati nel 2015, un miliardo e trecento evaporati nel 2016, fino ai quasi due miliardi pronti a spiccare il volo quest’anno. Nemmeno una parola, però, sugli aumenti a raffica delle tasse sulle polizze Rc-auto, che pressoché tutte le Provincie hanno nel frattempo portato al livello massimo consentito. Ed ecco qualche giorno più tardi la richiesta di un decreto legge per ripristinare i finanziamenti perfidamente soppressi dal governo di Matteo Renzi.
Sperano, le Province, e a ragion veduta. Sono riuscite a sopravvivere, sia pure dovendo fare i conti con i rigori imposti dalla legge. Con quello che è accaduto il 4 dicembre scorso, e la slavina di voti che ha seppellito la riforma renziana, chi avrà mai più il coraggio di mettere in discussione la loro esistenza? Ci sarà da lottare, sicuro. Ma la democrazia altrettanto certamente prevarrà.
Sembrano ormai lontani anni luce quei giorni che non ne passava uno senza che Silvio Berlusconi proclamasse «Le Province? Sono inutili», o da sinistra arrivassero bordate contro gli sprechi, senza che neppure Beppe Grillo spendesse una parola per difenderle. Tutt’altro. Questo diceva tre anni fa il leader del Movimento 5 stelle: «Noi vogliamo abolire seriamente le Province e in tutti questi anni non c’è stato uno del Movimento Cinque Stelle che si sia candidato alle Province. Non ci siamo mai candidati perché vogliamo realmente abolirle, risparmiando due miliardi».
E nessuno si potrebbe stupire se qualcuno nel Parlamento, finalmente restituito al suo storico bicameralismo, avesse il coraggio di riproporre prima o poi (se non in questa, nella prossima legislatura) un clamoroso ritorno all’elezione diretta dei consigli provinciali da parte dei cittadini. Ci potremmo mettere anzi la mano sul fuoco. E scommettere anche su come potrà andare a finire, in quel caso.
Qualcuno allora dovrà prendersi la briga di smurare dalla sede della Provincia di Reggio Calabria quella lapide grondante mestizia collocata lì alla vigilia delle prime elezioni non più dirette del consiglio regionale, la scorsa estate. Una targa marmorea alla memoria degli ultimi consiglieri eletti a suffragio universale, capitanati dall’ex sindaco di Reggio facente funzioni Giuseppe Raffa, con i loro nomi scolpiti in caratteri color porpora. Da sostituire, magari, con una lapide diversa: dedicata questa volta, anziché ai martiri della democrazia elettiva, agli ultimi eletti con la legge Delrio.