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 2017  gennaio 06 Venerdì calendario

Se inizia a bruciare la città di Omero: crocevia di scafisti, turisti e miliziani

ISTANBUL «Fratelli miei che vivete sulla costa occidentale, credeteci, questo fuoco brucerà dappertutto. Anche a Smirne…». Il giorno che a Istanbul presero Rakip Yardhici detto «Cigerhun», 100 mila dollari di taglia e un bel po’ di Pkk sulle spalle, quel messaggio sembrò una sfida: se la nostra lotta è allo Stato turco ovunque sia, perché dovremmo stare alla larga dall’Ovest? Ankara, Istanbul, l’Anatolia, il Kurdistan. Non esistono «No Bombing Zone» in Turchia, ma il gps del bombarolo ha i suoi preferiti. E finora la terza metropoli del Paese, 4 milioni d’abitanti, stava fuori dalla lista. C’entrerà l’antichissima culla d’Omero e di Seferis: qui s’è sempre evitato di scrivere l’epica nera delle stragi. C’entrerà che ci sono nati pure Onassis e un teorico della «coabitazione politica» come Balladur: soldi (tanti) e realismo hanno sempre suggerito a tutti i nemici del Sultano, Isis e Pkk e ultrasinistra rivoluzionaria, di non agitare troppo queste acque sull’Egeo. E se proprio bisognava fare terrorismo sul turismo balneare, alla larga da Izmir: meglio ammazzare altrove. «Per fortuna – diceva solo tre giorni fa monsignor Lorenzo Piretto, arcivescovo cristiano della città – noi siamo in un’oasi relativamente tranquilla…».
Le palme davanti al tribunale, ieri, tutto sembravano meno che un’oasi. Qualcosa è cambiato. Il Pkk, sempre che c’entri, tornato a lanciare questa strana sfida proprio adesso. E le indagini sul killer del Reina Club, che da due giorni si sono spostate a Smirne: 20 arresti di daghestani, kirghizi, uiguri, tre famiglie accusate d’aver fiancheggiato il terrorista in fuga. Isis, Pkk, Kck (comunisti curdi), Ydg-H (giovani curdi), Dhkp-C (marxisti-leninisti rivoluzionari), il condominio delle sigle è affollato: «Non manca nessuno – dice una fonte d’intelligence europea – ma a differenza di quel che succede nel resto della Turchia, qui nessuno ha mai avuto interesse a creare tensione».
Smirne è da sempre la retrovia di mille guerre e di mille affari. «Un’economia sommersa e multimilionaria», ha scritto il New York Times, fra contrabbando di petrolio e scafisti per l’Europa, spesso con legami inconfessabili. Gran parte dei jihadisti che hanno colpito la Turchia è passata per la rete logistica locale: membri del partito di Erdogan sono stati arrestati per aver aiutato gente dello Stato islamico e un manuale del jihadista, datato 2015, raccomanda d’usare Smirne come base per via dei pochi controlli. Nell’ultimo anno e mezzo due navi cariche d’armi salpate da questo porto sono state bloccate dai greci, mentre portavano materiale all’Isis in Libia. Per non dire della manovalanza, sempre facile da reperire: i campi profughi sono fra i più squallidi del Medio Oriente, ha certificato l’Unhcr, un quarto delle aziende fuggite dalla Siria s’è insediato qui e anche le fabbriche tessili locali trovano senza problemi operai bambini, da far lavorare dodici ore al giorno per sei giorni di fila, salario di un euro all’ora.
Che questa zona grigia di sfruttamento e malaffare potesse colorare anche la fabbrica del terrore – chiusa la rotta balcanica, irraggiungibili le isole greche proprio di fronte – era un rischio sempre segnalato dai servizi europei: anche due del gruppo che colpì il Bataclan, è provato, si fermarono a Smirne prima di partire per Leros, destinazione Parigi. Ma la quiete degli attentati era sempre stata una garanzia. Adesso? Numan Kurtulmus, fedelissimo di Erdogan, è convinto che dietro quest’ondata d’attacchi ci sia «l’intelligence di qualche Paese straniero». Un giornale turco ieri prevedeva che a Smirne sarebbe successo qualcosa. Il fuoco ha cominciato a bruciare.