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 2017  gennaio 05 Giovedì calendario

«Ho riportato Dante al latino, finirò nell’Inferno?»

«Media aetate, bona deerta fruge, in obscura silva me inveni». Vi ricorda qualcosa? Ebbene sì, la Commedia di Dante, Inferno, canto I, le celeberrime terzine dell’incipit: «Nel mezzo del cammin di nostra vita…» eccetera. Ricondotte a viva forza a quella lingua latina da cui il «ghibellin fuggiasco» (che poi ghibellino, com’è noto, non era, ma guelfo filo-imperiale) invece fuggì, optando per l’eloquenza del volgare. «Dantis Alagherii Comoedia», si legge sulla copertina del ponderoso volume edito dal Centro Tipografico Livornese, «latina translatio Antonii Bonelli».
Antonio Bonelli, l’autore di questa ingegnosa follia, non è un latinista di professione. Ottantaquattro anni imperturbabilmente portati, medico in pensione (era specialista di chirurgia pediatrica e cardiotoracica all’Ospedale dei Bambini di Milano), una esperienza di insegnamento in Uganda, all’Università di Kampala, alle spalle una piccola produzione di saggi che spaziano dalla storia all’arte, oltre a un romanzo, un volume di racconti e una raccolta di sonetti, ha nutrito la passione per il latino fin da piccolo.
«Ho fatto per anni il chierichetto, quando bisognava conoscere tutti i salmi, saper rispondere in latino a buona parte della liturgia», ricorda seduto su una poltrona del suo appartamento milanese appena fuori del centro, sulla strada che porta a Linate. Poi c’è stato il liceo, classico naturalmente. «Allo Zaccaria, dai barnabiti: una scuola molto seria e selettiva. A quei tempi bisognava imparare gli autori latini e greci a memoria, addirittura in metrica. La messa e il liceo mi hanno stampato in testa il gusto della lingua: la costruzione, la grammatica, la sintassi, la scansione».
La Divina Commedia nella lingua di Virgilio non è una novità assoluta. Ma occorre risalire ai tempi del Concilio di Costanza, primi del ’400, quando provvide alla bisogna un francescano sammarinese, Giovanni Bertoldi da Serravalle, per venire incontro ai padri conciliari inglesi che non leggevano l’italiano. E nel corso dell’800 si cimentarono prima l’abate Gaetano Dalla Piazza, poi il letterato Giuseppe Pasquali Marinelli.
Ma com’è possibile che all’inizio del terzo millennio a qualcuno venga in mente un’impresa del genere?
«Ho cominciato un po’ per gioco, perché da pensionato ho il problema di impiegare il tempo. Avevo tradotto qualche pagina dei Promessi sposi, poi ho voluto provare qualcosa di più impegnativo. Prima qualche terzina, poi da qualche terzina è venuto fuori un canto, poi due canti… Oltretutto a un certo punto mi sono trovato di fronte a questo anniversario, il 750° della nascita di Dante, nel 2015. Non sono riuscito a finire in tempo, ma è stato un catalizzatore che ha accelerato i lavori».
Diciamo che è in anticipo per il 700° della morte, nel 2021.
«Già, possiamo aspettare il ’21 per una seconda edizione riveduta e corretta», ridacchia. «Ma, sa, alla mia età non faccio programmi che non siano a scadenza annuale».
Quanto tempo ha impiegato?
«Ci ho lavorato per tre anni, ma con lunghe interruzioni. Quando poi ho deciso di inseguire l’anniversario, allora mi sono messo davvero ventre a terra, tre ore al mattino e tre ore al pomeriggio. È una cosa impegnativa: ogni verso va letto e riletto, spesso sono dovuto ricorrere ai commenti per ricondurre i concetti di Dante a una prosa traducibile».
Ma si rende conto che per Dante è un bel contrappasso? Lui che aveva volto le spalle al latino…
«Mah… io penso che a Dante farebbe piacere, al di là del fatto che questa versione sia magari scadente – non sta a me giudicare -, che rispetti veramente lo spirito e anche la forma della Divina Commedia. In fin dei conti è stato tradotto in tutte le lingue del mondo».
Magari però una pena la riserverebbe anche a lei. Dove pensa che gliela farebbe scontare?
«Eh eh… Forse nel Purgatorio. Nell’Inferno mi dispiacerebbe. Però, magari, tra i falsari: “Hai falsato la mia opera, hai falsato il mio pensiero…”».
E dunque tra i dannati dell’VIII cerchio, a consumarsi nella febbre come la moglie di Putifarre. Un po’ meglio dei traditori, che stanno ancora più in giù, immersi in un lago ghiacciato. E non si dice che tradurre sia sempre un po’ tradire?
«Sì, soprattutto un’opera di poesia, perché rendere la metrica è quasi impossibile. Io ho adottato un latino di tipo liceale, una prosa piana, disposta però in terzine, con un’aderenza completa, per facilitare il raffronto. In un altro caso, qualche anno fa, mi ero avventurato in una versione in esametri del poema nazionale georgiano, L’uomo dalla pelle di leopardo, composto nel XII secolo da Sciota Rustaveli e tradotto per la prima volta solo all’inizio del ’900, in inglese, dalla studiosa Marjory Scott Wardrop: io mi sono basato sul suo lavoro».
Tornando allaCommedia, quale cantica ha trovato più difficile?
«Certamente il Paradiso. Nell’Inferno Dante è figurativo, poi diventa sempre più astratto, con immagini difficili da rendere. Come nell’ultimo canto, quando si arriva alla visione della Trinità, questi cerchi dove si intravede la figura del Cristo, che esiste e non esiste, realtà visiva e insieme immaginativa».
Poi c’è lo scoglio dei neologismi danteschi, che non sono pochi.
«È un grosso problema, ci sono quegli stranissimi verbi – “indonna”, “disuna”, “inluia” – che però molto spesso sono di origine latina. Quindi li ho lasciati pari pari, anche perché sono talmente belli che tradurli vorrebbe dire sciuparli. “S’inluia” è diventato inluit».
Dove Dante inventa il volgare, lei reinventa il latino. Ma quanto si è divertito?
«Quando riesco a rendere un pensiero e lo rileggo e mi pare che sia stato interpretato e anche messo giù abbastanza bene, ho veramente un grande godimento. La traduzione è un po’ una personalizzazione: leggendo una terzina “mia”, sì, ci trovo Dante, ma ci trovo anche me stesso. È una soddisfazione anche maggiore di quella che si prova scrivendo un romanzo. Forse perché ti senti in compagnia di questo gigante, nella sua scia».
Settimo tra cotanto senno…
«L’ho fatto soltanto per un piacere personale. Quando racconto che ho tradotto la Divina Commedia in latino e mi dicono “Perbacco!”, beh, sono gratificato. Mi dà una certa soddisfazione pensare che alla mia età ho ancora la freschezza mentale per un’opera del genere. C’è anche un pochino di vanità. Ma so benissimo che questo è un libro che nessuno leggerà. È un libro nato per non essere letto».