Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  gennaio 05 Giovedì calendario

La rivolta del corpaccione Rai: «Qui dentro ci sono anche grande storia e orgoglio»

Non facciamoci ingannare dalle impressioni. Per esempio: nell’ufficio di un vicedirettore di tg c’è un Videocassette Player Betacam. All’ingresso 2 di Saxa Rubra c’è il parcheggio dei camion, un camposanto tecnologico in tempi di zainetto – tutto uno studio di registrazione sulle spalle – e lì si vede pure la Fiat 1500 per seguire il Giro d’Italia ai tempi di Felice Gimondi. Ecco, non facciamoci ingannare dalle impressioni, nutrite da un’aneddotica intonata alla moquette color ratatouille e delle dimensioni dei televisori a tubo catodico che occupano le scrivanie, e diffusa in quantità. Clemente J. Mimun, oggi direttore del Tg5, e per un ventennio in Rai, ricorda della volta in cui «un ministro dell’Economia si chiamò una troupe da solo perché, a suo giudizio, aveva qualcosa di fondamentale da dire al paese». Le leggende percorrono i corridoi della Rai come il bimbo sul triciclo percorreva quelli dell’Overlook, l’hotel di Shining. Un giorno d’agosto di qualche anno fa una cinquantina di giornalisti del Tg1 era scomparsa nel nulla: tutti in servizio e introvabili, ma non partì una sanzione per preservare la serenità del luogo. E in effetti si dice che in Rai un terzo dei dipendenti non fa nulla, un terzo fa lo stretto necessario e l’ultimo terzo si fa un mazzo così. Oppure, variante pessimistica sul tema: un terzo lavora, un terzo no e dei restanti non si conosce la faccia.
E così chi arriva a petto in fuori in questa fortezza deve sapere che la massa muscolare non basta: «Sono convinto che Gad Lerner avesse ragione quando denunciò l’attacco ipocrita alla sua direzione: ricordate lo scandalo delle immagini sulla pedofilia? Si dimise ma sono convinto che i controlli saltarono perché Lerner aveva affrontato la redazione con troppo sussiego», racconta Agostino Saccà, una vita in Rai, anche da direttore generale. Poi torneremo da Saccà, ma il concetto è così espresso da un altro ex direttore del Tg1, Carlo Rossella: «È un posto nel quale, quando arrivi, devi far finta di non esserci, soprattutto con te stesso. Devi sapere che ti possono cacciare il giorno dopo: alla mattina, dopo il mio Padre Nostro, mi chiedevo: stasera sarò ancora direttore? Non devi avere illusioni né ambizioni perché fare il direttore in Rai è come un esercizio di equilibrismo su un filo d’acciaio attraverso il Grand Canyon. Soltanto che in Colorado cerca di buttarti giù il vento, in Rai cercano di buttarti giù: l’opposizione, il sindacato, chi ambisce al tuo posto e vari imprecisabili nemici».
Ok, torniamo a capo: non facciamoci ingannare dalle impressioni. Dalle interminabili impressioni. «La Rai non è contemporanea», dice Mimun. «Non è che debba entrare nella Terza repubblica, non è mai entrata nella Seconda e forse nemmeno nella prima: alla Rai se parte un capo di governo devi mandargli appresso sei inviati e se ne mandi cinque è la guerra atomica». Certo, l’esercito dei giornalisti, la lottizzazione, ma è tutto il mondo che ci gira attorno, «sono i telespettatori che protestano se salta l’oroscopo per la diretta sulla strage di Istanbul», conclude Mimun. Le impressioni non sono tutto perché poi la Rai è la Rai, e qui si raggiunge un’altra unanimità. Rossella: «C’è una straordinaria professionalità, ancora oggi. Appena c’è un grande evento ce ne si accorge. Alla Rai anche i raccomandati hanno professionalità perché la Rai è come il paese di Cacania, dove un intelligente poteva essere scambiato per cretino, ma mai un cretino per intelligente». Mimun: «La Rai sembra Natale in casa Cupiello, ma poi è piena di gente con qualità e capacità enormi, veloce, in grado di imbastire servizi invidiati nel mondo». Ed è qui che serve di nuovo Saccà, il quale spiega perché quelli che arrivano in Rai si perdono nel gigantismo, nei milioni d’uffici, nella burocrazia, e soprattutto nel pregiudizio: «La Rai è stata uno dei capolavori del fascismo, è nata con Guglielmo Marconi, i suoi allievi sono stati all’avanguardia nel pianeta nella distribuzione del segnale, hanno scoperto l’algoritmo di base per fare la conversione numerica che conduce dall’analogico al digitale, nessuno lo sa ma è alla Rai di Torino che sono nati i presupposti della rivoluzione digitale, del web. Ancora in tempi recenti gli americani compravano i nostri servizi di guerra, perché eravamo tecnologicamente avanzati e i nostri inviati erano altamente competitivi. Questo deve sapere chi va in Rai: che là dentro non è soltanto pantano e politica, ma storia e orgoglio». E storia e orgoglio più pantano e politica danno la somma: irriformabile.