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 2017  gennaio 03 Martedì calendario

Turchia, una guerra anche nostra

La guerra a colpi di attentati lanciata dall’Isis contro la Turchia è anche la nostra. Non solo perché gli Usa, su iniziativa dell’ex segretario di Stato Hillary Clinton, la Francia e le monarchie del Golfo lo avevano incoraggiato ad abbattere Assad aprendo “l’autostrada della Jihad” ai combattenti sunniti.
Quegli stessi combattenti che ora si vendicano del suo tradimento con Putin e il detestato Iran sciita. Questa guerra ci riguarda perché mentre il Califfato perde terreno, il ritorno dei foreign fighters sarà una grave problema di sicurezza per l’Europa e il Mediterraneo. Si è stimato, secondo Europol, che i combattenti stranieri jihadisti e dell’Isis in Siria non fossero meno di 20mila, di cui alcune migliaia tunisini, libici, ceceni, turchi e centro-asiatici e altri, circa 5mila provenienti da Francia, Gran Bretagna, Germania, Belgio. 
È evidente che una delle loro vie di fuga è la Turchia: sarà Erdogan il poliziotto d’Europa così come oggi è l’arrogante custode di oltre due milioni di profughi siriani? Forse mai come in questo momento dopo il golpe del 15 luglio scorso la sorte del leader turco, che aspira ai pieni poteri presidenziali, è apparsa incerta. La sua unica opportunità è riciclarsi con la lotta al terrorismo che lui stesso a favorito.
La Turchia però è vulnerabile, così come Erdogan che con l’accordo con Mosca e Teheran ha ribaltato di 360 gradi la sua politica estera, accettando non solo che Assad restasse al potere ma vendendosi i jihadisti a Putin in cambio della mano libera contro i curdi siriani. 
La sconfitta di Aleppo è stata una svolta. Erdogan ha avuto l’appoggio dell’aviazione di Mosca per bombardare Al Bab, roccaforte del Califfato e trampolino di lancio per la futura offensiva su Raqqa, capitale dello Stato Islamico. Come contropartita dovrà occuparsi dei jihadisti concentrati dopo la caduta di Aleppo a Idlib, a 12 chilometri dal confine turco. Con la Turchia Putin è stato più chiaro di quanto non traspare dall’intesa approvata dal Consiglio di Sicurezza Onu. I jihadisti di Idlib dovranno essere neutralizzati perché la città è sulla direttrice Aleppo-Damasco e da qui sono partite le incursioni verso Latakia dove ci sono le basi militari russe, l’irrinunciabile bottino di Putin in questa guerra siriana.
Ecco la sostanza dell’accordo: i turchi devono farsi garanti delle conquiste di Mosca mettendo sotto controllo l’opposizione ad Assad. Questi sono gli sviluppi di una guerra per procura dove di fatto oltre alla Turchia, per il momento sono stati sconfitti occidentali e monarchie del Golfo, La Turchia, storico membro della Nato ma riluttante a seguirne i parametri, è entrata in un’intesa politica e militare, non si sa quanto duratura, con la Russia e con l’Iran, due Paesi ancora sotto sanzioni occidentali: un paradosso.
È chiaro che a questo punto i conti sulla sicurezza europea e della stessa Nato non si fanno soltanto con Erdogan ma anche con Putin e la repubblica islamica degli ayatollah, impegnata con le milizie sciite anche in Iraq dove è stretta alleata del governo di Baghdad. È su questa base che Putin attende l’insediamento di Trump per trattare direttamente con gli Usa perché ovviamente di Erdogan si fida fino a un certo punto visti i precedenti: nel novembre 2015 arrivarono sull’orlo dello scontro dopo l’abbattimento di un caccia russo Sukhoi.
Gli europei dovranno quindi sostenere con la consueta ipocrisia la Turchia, tenuta per anni nell’anticamera dell’Unione, e lo stesso Erdogan, l’aspirante raìs con ambizioni neo-ottomane naufragate in una deriva mediorientale, compresa una repressione inaccettabile per gli standard democratici: centinaia i giornalisti, gli scrittori e gli oppositori curdi messi in galera.
La Turchia è una barca che fa acqua. Dopo il golpe del 15 luglio scorso sono stati epurati con l’accusa di gulenismo migliaia di funzionari, militari, poliziotti e agenti dei servizi: 41mila gli arresti, 15mila tra soldati, ufficiali e poliziotti. Ankara ha indebolito come non mai il suo apparato di sicurezza. «La loro rimozione ha avuto un impatto notevole sulle stesse capacità di difesa della Turchia», ha affermato il comandante supremo della Nato Curtis Scaparrotti.
Destabilizzata, con un leader in parabola discendente all’esterno, la Turchia rischia anche la crisi economica. La lira è sotto pressione, la crescita si affloscia. il turismo è crollato di un terzo. Da dove venivano i soldi di un boom che si sta sgonfiando? Il 45% dell’export turco è diretto in Europa, Dal 2002, inizio dell’era Akp, il 75% degli investimenti esteri sono stati europei. Non solo. Il 70% dei debiti privati sono stati contratti qui, in particolare con la City di Londra. Questo deve far meditare l’Europa perché peggio di un raìs arrogante e in crisi c’è solo un altro raìs ma senza soldi, con truppe scontente e un popolo deluso e impaurito. Il Califfato, e forse non solo l’Isis, sa dove andare a colpire.