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 2017  gennaio 03 Martedì calendario

I devoti di Stalin ai tempi del nuovo Zar

Che Iosif Vissarionovic Dzhugashvili (Stalin, secondo il nome de plume che si sarebbe dato nei suoi primi scritti rivoluzionari) sia ancor oggi venerato in Georgia non è stupefacente. A Gori, il suo villaggio natale, c’è sempre stato un culto, rafforzato da evidenti interessi turistici, per l’ex studente del Seminario Spirituale di Tiflis, diventato poi un ardente seguace di Lenin e bolscevico della prima ora.
Negli anni del seminario Dzhugashvili era stato un ardente patriota nazionalista, aveva perfino scritto poemi in georgiano prima di darsi agli studi della politica (si era nel frattempo scoperto ateo e forse per questo fu bocciato agli esami finali nonostante fosse un eccellente studente). Ma c’è un’altra ragione per la quale il culto di Stalin non si è mai spento in Georgia: l’odio dei georgiani verso i russi, peraltro ricambiato. Un giorno, durante una visita a Tbilisi, un noto regista georgiano che mi spiegò con una cinica battuta l’adorazione di Stalin da parte dei suoi compatrioti: «Ha fatto fuori più russi nei lager che i nazisti durante la guerra».
Ma il rinnovato culto di Stalin è ambivalente. Se nella Georgia oggi indipendente (e aggredita dalla Russia nella breve guerra del 2008) può essere motivato dal nazionalismo anti-russo, nella Russia di Putin la rivalutazione del dittatore georgiano, che guidò con il terrore l’Unione Sovietica fino alla morte nel 1953, fa parte di una narrazione che mira a giustificare la “democrazia illiberale” di oggi con la continuità storica. Il nuovo zar si è spinto molto in là in questo: ispirato dal suo consigliere spirituale, il vescovo Tikhon, che ha presieduto la commissione giudicante dei progetti artistici, ha fatto edificare fuori dalle mura rosse del Cremlino una statua gigantesca di Vladimir il Grande, considerato il fondatore della Russia moderna, anche se il suo principato era a Kiev.
Ma il vero anello forte di questa riscrittura narrativa è l’incorporazione del periodo sovietico, dopo la rottura del periodo eltsiniano, nel modello statuale russo di oggi. La restaurazione dell’inno sovietico, che era stato composto nel 1938 al culmine del terrore staliniano, è stata uno dei tanti segni di questa narrazione. Ma è soprattutto la vittoria nella Seconda guerra mondiale, presentata come un esempio della compattezza dello Stato piuttosto che come il successo finale dei valori umani rispetto alla forza del male, che crea il tessuto connettivo tra l’Urss di ieri e la Russia di oggi. Come è stato giustamente notato «la santificazione di quella vittoria, e del ruolo di Stalin, è diventata la base storica dell’ideologia di Putin», un patriottismo basato su una miscela di religione ortodossa, nazionalismo e autocrazia (che piace peraltro molto ai russi).
Ai differenza della Germania sconfitta con il nazismo, la Russia vincitrice non si è mai sentita costretta a rigettare lo stalinismo (e le foto che pubblichiamo, pur nella loro ambivalenza, ne sono una prova). E in coerenza con la nuova narrazione del passato, attualizzato nel presente, il Cremlino non ha avuto remore, né opposizione, a definire Memorial, una storica organizzazione di ricerca e denuncia dei crimini di Stalin, un “agente straniero”. L’equivalente di “traditori”.