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 2017  gennaio 03 Martedì calendario

Magistrati sotto accusa

Speriamo prima o poi di essere smentiti, ma ormai appare evidente che il processo per l’uccisione del procuratore capo di Torino Bruno Caccia non avrà mai fine. Caccia, va ricordato, è stato l’unico magistrato ucciso (il 26 giugno del 1983) da un’associazione mafiosa nel Nord Italia. Nel dicembre del 2015 (trentadue anni dopo il delitto) il pubblico ministero di Milano Marcello Tatangelo, assieme a Ilda Boccassini, aveva festeggiato la soluzione del caso di quel terribile omicidio annunciando prove schiaccianti a carico del ’ndranghetista Rocco Schirripa. Ma il magistrato milanese non si era accorto che Schirripa era già stato indagato (per le denunce del pentito Vincenzo Pavia) vent’anni prima. Lo ha scoperto un mese fa – scandalizzandosene – l’avvocato della famiglia Caccia, Fabio Repici. Così adesso tutto deve cominciare daccapo. Una vicenda infinita sulla quale, per una coincidenza, sta per essere pubblicato adesso (da Laterza) un interessante ed esaustivo libro di Paola Bellone, Tutti i nemici del procuratore. L’omicidio di Bruno Caccia. Così, per una volta, la storia arriva prima della giustizia.
Il giorno in cui Caccia fu ucciso erano in corso in Italia le elezioni politiche, quelle che decretarono un relativo crollo della Democrazia cristiana guidata da Ciriaco De Mita. Per questo l’indomani i giornali diedero un risalto non adeguato alla notizia dell’assassinio del giudice. In un primo tempo poi gli inquirenti valutarono l’ipotesi che a toglierlo di mezzo fossero stati terroristi rossi (nel 1975, da sostituto procuratore, aveva firmato la richiesta di rinvio a giudizio per i brigatisti Renato Curcio, Alberto Franceschini e Prospero Gallinari). Successivamente però le indagini si orientarono gradualmente verso la direzione giusta, quella della malavita meridionale trapiantata nel capoluogo piemontese. E in che modo Caccia dava fastidio ai «calabresi»? Semplice, sostiene la sentenza, «ostacolava la disponibilità altrui». Cioè impediva ad alcuni suoi colleghi di tenere un atteggiamento compiacente nei confronti della ’ndrangheta.
C’è però qualcosa che potrebbe apparire strano: perché i malavitosi avrebbero dovuto compiere quell’esecuzione nel momento in cui Bruno Caccia aveva chiesto l’assegnazione alla Procura di Genova e stava dunque per lasciare Torino? Perché anche a Genova quel magistrato integro avrebbe potuto ostacolare la «disponibilità altrui». Il che equivale a dire che all’epoca erano infetti i palazzi di giustizia del capoluogo piemontese, ma anche di quello ligure.
E qui il libro della Bellone – dopo una ricostruzione davvero accurata di tutta la storia – si domanda: che ne è stato di quei magistrati «inquinati»? La risposta è agghiacciante. In una prima fase la loro posizione fu vagliata dai colleghi e tutti, Franca Viola Carpinteri, Ubaldo Fazio, Luigi Moschella, Vincenzo Ferraro, furono assolti. L’unico condannato (e destituito) fu Antonio Tribisonna, ma per corruzione «impropria», cioè per aver ricevuto regalie in cambio di una sentenza di assoluzione ritenuta corretta. Moschella fu condannato solo per avere ricevuto lingotti d’oro da un malavitoso, che però non faceva parte del clan dei calabresi, e la pena gli fu condonata. Fazio e Moschella si dimisero. Gli altri rimasero al loro posto. Anche se le sentenze perlopiù non negarono la «disponibilità» dei magistrati verso i malavitosi. Si può, forse, «accettare una sentenza di assoluzione penale di magistrati disponibili», scrive Paola Bellone, «ma è più difficile accettare che tali magistrati abbiano continuato a fare i magistrati». Il Consiglio superiore della magistratura, investito del giudizio disciplinare su quei signori, ne assolse alcuni, ad altri comminò sanzioni peraltro lievi. Ma tutti, ripetiamo, rimasero al loro posto.
Franca Carpinteri fu mandata a processo per interessi privati in atti d’ufficio, per aver assolto – su sollecitazione di Pasquale Cananzi (ucciso per un regolamento di conti in quello stesso 1983) – l’imputato Muzio, «Peppino ‘u banditu», accusato per reati di droga. Carpinteri, precisa Bellone, fu assolta perché non fu provato né che Muzio fosse colpevole (e di conseguenza non fu dimostrato che la sua sentenza fosse ingiusta) né che Cananzi l’avesse realmente sollecitata ad assolvere Muzio («aveva una vocazione per la millanteria ed è possibile che si sia solo vantato di averlo fatto»). Nello stesso processo era imputato il magistrato Tribisonna, e lui, siccome fu ritenuto provato che avesse ricevuto un «regalo» per aver assolto Muzio, non poté evitare la condanna per corruzione, ancorché «impropria». Ma il pm che mandò a giudizio Franca Carpinteri (e Muzio) sosteneva che la sentenza fosse frutto di una «deviazione dolosa». Tanto più che la Carpinteri aveva ammesso di aver giocato a poker allo stesso tavolo con Cananzi, di essere stata almeno una volta a casa sua, di aver acquistato da lui un orologio. A chi storceva il naso, i giudici risposero di aver voluto essere «garantisti». Così la Carpinteri continuò a fare il magistrato, prima come giudice del tribunale di Asti, poi come giudice di Appello a Genova. Ad Asti ebbe poi altri due incidenti professionali per i quali fu sottoposta nuovamente a procedimento disciplinare. Aveva ordinato la distruzione di nastri tra i quali c’era la registrazione di conversazioni tra lei e una sua amica, moglie di un esponente socialista indagato. Poi aveva fatto scadere i termini delle indagini contro un gruppo di imprenditori inquisiti per truffa aggravata ai danni dell’erario. Stavolta il Csm non credette più alla versione della mancanza di cautela e questo le costò, ironizza la Bellone, una «severa, si fa per dire, sanzione»: un’ammonizione. Vincenzo Ferraro, che aveva organizzato le allegre partite a carte a cui avevano partecipato la Carpinteri e Cananzi, era sotto osservazione da una ventina d’anni. I suoi colleghi avevano puntato su di lui i riflettori nel 1962, allorché fu sottoposto a procedimento disciplinare per i ritardi di alcune sentenze. Quella volta fu assolto. La prima sanzione gli arrivò nel 1963, allorché fu riconosciuto colpevole di essersi assentato senza giustificazione – quando era pretore di Caulonia (Reggio Calabria) – dal posto di lavoro, di non aver interrogato alcuni fermati, di aver trasmesso in ritardo le sentenze al procuratore della Repubblica (talvolta dopo che erano scaduti i termini entro i quali si sarebbe potuto impugnarle), di non essersi astenuto in un processo penale in cui era imputato un suo amico. In più gli fu mosso il rilievo di aver partecipato – la sera delle elezioni politiche, quando i seggi non erano ancora chiusi – «ad un numeroso e incomposto corteo di automobili che si recava da Locri a Siderno per festeggiare la prevista vittoria di un candidato locale».
Ferraro era bravo sotto il profilo tecnico. Gliene diedero atto Bruno Caccia e Vladimiro Zagrebelsky, quando a Torino nel 1976 furono incaricati dal Consiglio giudiziario di valutare se fosse meritevole di essere elevato di grado. Ma elencarono poi alcuni addebiti che ne sconsigliavano la promozione. Il Csm prese atto di quella decisione, che però due anni dopo fu annullata dal Tar. Nel 1982 la relazione di Caccia e Zagrebelsky tornò d’attualità quando il Csm fu di nuovo costretto ad occuparsi di Ferraro. E lo assolse dalle accuse di acredine e arroganza nei confronti di alcuni colleghi. Cosa che non può essere considerata di poco conto, scrive Paola Bellone, «se si pensa che l’istruttoria del procedimento disciplinare fu svolta proprio a Torino, mentre era procuratore capo Bruno Caccia… il che la dice lunga sul clima degli uffici giudiziari di quella città, sulla solitudine e sulla fermezza con cui Caccia doveva operare».
Il Csm però non se la sentì di assolvere Ferraro in toto e, per salvarsi la coscienza, lo condannò per un episodio quasi comico: il magistrato stava fumando in aula (all’epoca era consentito) e ordinò di uscire ad un insegnante che stava accendendosi una sigaretta; l’uomo fece notare a Ferraro l’incongruenza e questi lo fece perquisire e arrestare per «oltraggio a pubblico ufficiale». Il Csm condannò Ferraro alla perdita di sei mesi di anzianità, ma solo per la perquisizione. Dopodiché, alle solite, la Cassazione invalidò tutto per motivi procedurali e il Csm ridusse la sanzione a una censura. Anche la censura poi finì nel nulla, dal momento che nel 1996 gli fu condonata. Nel frattempo il magistrato era stato assolto dai giudici milanesi dall’accusa di essersi fatto corrompere da malavitosi (1989).
Infine il Csm ritenne «provati» i rapporti tra Ferraro, Pasquale Cananzi – lo avevamo già incontrato in compagnia di Franca Carpinteri – e Rocco Arcuri, «persone notoriamente dedite a traffici illeciti». E ritenne altresì «provata» la consapevolezza di Ferraro del fatto che Cananzi e Arcuri fossero due malavitosi. All’uomo comune, scrive la Bellone, queste prove sembrerebbero sufficienti per determinare l’allontanamento di Ferraro dalla magistratura. Il Csm invece lo condannò soltanto alla sanzione della censura. Nel 1998, quando era consigliere della Corte d’appello di Genova (assieme a Franca Carpinteri), Ferraro finì per l’ennesima volta sotto procedimento da parte del Csm per il «ritardo sistematico nel deposito di sentenze». Ma, dopo una settimana, la sentenza fu «soggetta a revisione», perché il Csm si era accorto che nel frattempo Ferraro era andato in pensione e quindi andava prosciolto.
Anche il magistrato Flavio Toninelli (come la Carpinteri e Ferraro) finì la sua carriera alla Corte d’appello di Genova. Nel dicembre dell’anno in cui venne assassinato Caccia (1983) fu sottoposto a procedimento disciplinare perché aveva una relazione con una prostituta «collegata a una pericolosa organizzazione criminale dedita al sequestro di persona a scopo di estorsione». Il Csm lo condannò alla censura e lo trasferì d’ufficio (ma nel 1990 la sanzione gli venne condonata). Un quarto togato, Giuseppe Marabotto, pubblico ministero nell’ufficio guidato da Bruno Caccia, rivelò a un avvocato, Giuseppe Bernardo, che la Procura di Torino lo stava intercettando («Pensavo lo sapesse già», fu la difesa del magistrato) e ricevette, per questo, una censura. Andò poi a dirigere la Procura di Pinerolo, da dove dovette essere trasferito per «incompatibilità ambientale» (i suoi rapporti con i «calabresi») a… Genova. Dove nel 2009 fu arrestato per corruzione, truffa e associazione a delinquere. Ma evitò il procedimento disciplinare da parte del Csm avanzando tempestivamente la richiesta di pensionamento.
Ecco un pezzo della storia d’Italia che è ancora tutto da scrivere. L’impressionante capitolo conclusivo del libro di Paola Bellone costituisce un clamoroso atto d’accusa non soltanto contro i colleghi di Bruno Caccia, ma nei confronti del Consiglio superiore della magistratura, anzi (eccezion fatta per pochissimi casi) dell’intera magistratura. Magistratura i cui membri ancora negli anni Novanta – cioè quando gli uomini in toga furono alla ribalta per la «rivoluzione» di Mani Pulite – non guardarono con la necessaria severità ai loro colleghi «inquinati». Colleghi la cui «disponibilità», nel caso torinese, aveva fatto da contesto all’uccisione di Caccia. Tra l’altro, fa osservare la Bellone, la sanzione del trasferimento d’ufficio, la più grave inflitta ad alcuni di questi magistrati, ha finito per essere una punizione per i cittadini dei comuni nei quali quei giudici erano stati trasferiti.
Il 1987, scrive Paola Bellone, un anno centrale per questa storia, è quello del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati promosso dai socialisti e dai radicali di Marco Pannella. Sullo sfondo c’era questa vicenda delle indagini in merito all’omicidio Caccia e dei «magistrati inquinati». Il referendum, pur vinto dai sostenitori del Sì, finì nel nulla e i magistrati inquinati rimasero sostanzialmente ai loro posti. «L’indulgenza di cui beneficiarono in sede disciplinare», osserva Paola Bellone, «sembra motivata proprio dall’ampiezza delle loro relazioni all’interno della magistratura». Non averli espulsi comportò (comporta tutt’oggi?) non solo il rischio del «chi l’ha fatto una volta può rifarlo», ma quello di innescare poi un circolo vizioso per cui «perdonato lui, si perdonerà anche il collega pigro e magari persino quello incompetente». O peggio.