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 2017  gennaio 03 Martedì calendario

Ora l’innovazione finanziaria spaventa l’europa

Suona curiosamente attuale in questo scorcio di 2017 Paul Volcker, l’uomo che precedette Alan Greenspan alla guida della Federal Reserve. Ormai anziano, ma non per questo più mite, dopo la caduta di Lehman Brothers riassunse un’epoca in una frase: «La sola innovazione finanziaria utile degli ultimi vent’anni è stata il bancomat». Quando Volcker parlava così platee di ascoltatori con conti in banca a otto, nove o dieci cifre sprofondavano nel silenzio. Non era mai chiaro se fosse profondo rispetto, o imbarazzo.
Volcker naturalmente si riferiva alle innovazioni che dieci anni fa si ritorsero contro Wall Street: titoli strutturati o i «credit default swaps», derivati progettati durante una vacanza a Boca Raton, Florida, da un gruppo di banchieri di Jp Morgan nel 1994 per spalmare il rischio sui mercati nell’illusione di annullarlo. Nacque così la saggezza convenzionale del ventennio che si è chiuso nel 2007: investitori, regolatori e economisti spiegarono per anni che l’innovazione era in grado di prevenire le deflagrazioni del mercato. Chi avvertiva che un’illusione del genere avrebbe indotto nuovi incidenti era oggetto di scherno e umiliazioni dimostrative. Accadde per esempio a Raghuram Rajan nel 2005, maltrattato dall’ex segretario al Tesoro Usa Larry Summers per aver previsto ciò che sarebbe successo pochi anni dopo.

Non resta che chiedersi se questa sia davvero una storia che non tornerà. Nemmeno in forma diversa, nemmeno in Europa, nemmeno ora che c’è l’Unione bancaria. Resta da capire se il conformismo interessato degli esperti e le false certezze dei banchieri rendano davvero sicuri i sistemi di oggi nell’area euro. Eppure è passata nel silenzio la scelta della Banca centrale europea, la settimana scorsa, di mostrarsi per la prima volta flessibile nella vigilanza finanziaria. La parte dell’amministrazione di Francoforte incaricata di sorvegliare sulle grandi banche dell’area euro, sotto la guida della francese Danièle Nouy, per quest’anno ha ridotto i requisiti vincolanti di capitale di un certo numero di gruppi francesi, tedeschi, italiani o spagnoli.
 
È molto probabile che si sia trattato di una decisione corretta, ma certo che non è ciò che ci si aspetterebbe. Ora che le economie sono in ripresa e le banche hanno di fronte a sé la prospettiva di riprendere a guadagnare, la severa reputazione di Nouy avrebbe indotto ad attendersi al contrario. I requisiti di capitale di una banca sono paragonabili al patrimonio minimo da investire in un immobile per poter ottenere un mutuo e comprarselo. Ma ridurli proprio ora equivale a chiedere alla formica di mettere meno da parte durante la bella stagione, a rischio di doverlo poi fare dolorosamente quando farà freddo.

Se succede oggi in Europa, è a causa di un’innovazione finanziaria i cui risvolti ancora una volta sono del tutto sfuggiti di mano agli esperti, ai regolatori e i suoi stessi inventori. Si tratta dei cosiddetti «contingent convertible bonds» (CoCo bonds), obbligazioni di nuovo tipo pensate dopo la Grande recessione proprio per rimediare alla povertà di capitale delle banche emersa nel 2008. Questi titoli sono ambivalenti per natura: chi li compra sa che verranno cancellati o convertiti in azioni, svalutandosi, allo scoccare di certe condizioni di difficoltà di una banca. In tal modo l’istituto, quando è in crisi, può generare nuovo patrimonio o ridurre i debiti. Le banche hanno risposto emettendo CoCo bonds voracemente: entro metà del 2016, secondo Bloomberg, per 106 miliardi di euro. Del resto uno studio pubblicato nel 2013 della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), l’organismo delle grandi banche centrali del pianeta, ne magnificava le virtù e Andrew Haldane, capoeconomista della Bank of England, ne era così entusiasta da proporre che emettano questi strani i titoli anche i governi indebitati.

Come i «credit default swaps» dieci anni prima, i CoCo bonds sembravano l’elisir della stabilità. Nel suo studio del 2013, la Bri nota compiaciuta che vengano venduti in massa ai piccoli risparmiatori. Ma come dieci anni fa, erano sfuggiti due dettagli destabilizzanti: la Bce impedisce alle banche di pagare le cedole sui CoCo quando il loro capitale scende sotto i requisiti vincolanti, perché a quel punto il denaro deve restare in azienda; e se una prospettiva del genere appare all’orizzonte anche solo per un’unica banca, gli investitori ne vendono subito i CoCo facendo crollare le quotazioni, segnalando così crisi e innescando contagio sui CoCo e sui titoli azionari di tutte le altre concorrenti. È successo nel 2016 per tutti i grandi gruppi europei. I CoCo si sono rivelati sicuri come scudi ricoperti di tritolo. Per questo la Bce la settimana scorsa ha dovuto allentare i requisiti patrimoniali vincolanti delle banche, in modo da allontanare la soglia d’innesco del panico.

C’è poi un problema in più: le nuove regole Ue sugli aiuti di Stato di fatto trasformano retroattivamente i titoli subordinati venduti al pubblico in molti Paesi d’Europa in CoCo, strumenti pericolosi e inadatti alle famiglie. Ma non un economista che eccepisca. Anche loro tengono famiglia. Solo Paul Volcker, 90 anni, dice senza remore ciò che pensa.