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 2017  gennaio 02 Lunedì calendario

I sunniti, Aleppo e i voltafaccia turchi: la vendetta degli ex amici di Erdogan

Nel Medio Oriente che sanguina, alleati e complici diventano spesso nemici o finti amici. E viceversa. Il caso Erdogan è esemplare. Fino a poco più di una stagione fa il presidente turco era il campione dell’Islam sunnita. Era il “sultano” di un progetto neo-ottomano, di netta impronta musulmana, sia in politica estera che in politica interna.
Adesso lo vediamo invece membro di un’alleanza russo-iraniana sul piano militare e diplomatico favorevole alla causa sciita. Ossia allo schieramento opposto. La Turchia di Erdogan ha dunque nuovi amici ma anche un più fitto numero di nuovi nemici. Ferita da quattro attentati in meno di un mese, fatica a dare un’identità agli autori di un massacro come quello di Capodanno, nel night club sul Bosforo. Anche una rivendicazione può non essere convincente e lasciare dubbi. La vanità terroristica può spingere ad aggiudicarsi delitti compiuti da altri. La cattura del colpevole vivo potrebbe dare qualche certezza.
Non basta più indicare come colpevoli i curdi del Pkk o i jihadisti dello Stato Islamico o i complici di Fethullah Gülen, l’amico religioso di ieri e oggi il colpevole di tutti guai, compreso il fallito colpo di Stato dello scorso luglio. In un labirinto qual è l’odierno Medio Oriente non è sempre facile capire se l’alleato di oggi lo sarà ancora l’indomani. Nella battaglia di Aleppo il governo di Ankara ha sostenuto a lungo gli avversari di Damasco. All’inizio della guerra civile in Siria ha quasi dichiarato la guerra al regime di Bashar el Assad (appartenente alla comunità alawita, di origine sciita), e ha appoggiato l’opposizione sunnita. Cinque anni dopo, il 19 dicembre scorso, il poliziotto turco che ha assassinato Andrey G.Karlov, l’ambasciatore russo ad Ankara, pare volesse punire il paese che bombardava i ribelli impegnati nell’assedio di Aleppo. Ma in quella battaglia l’alleata della Russia di Putin, e del regime siriano di Bashar el Assad, era la Turchia di Erdogan, insieme all’Iran degli ayatollah. I proiettili non erano dunque destinati soltanto alla vittima russa. Il ribaltone può essere definito storico, perché la tradizione ottomana, alla quale si richiamava un tempo Erdogan, ha considerato spesso, per secoli, inevitabili avversari sia la Russia sia l’Iran. E ha affidato alla Turchia il compito di difendere l’Islam sunnita. Inoltre la svolta è avvenuta a Aleppo, nella città storicamente più ottomana della Siria.
Erdogan ha sposato a lungo la causa araba. Fino a diventare il punto di riferimento delle “primavere”, da quella tunisina a quella egiziana. Poi è stato l’ispiratore dei Fratelli musulmani vincitori delle elezioni a Tunisi e al Cairo. In ossequio al grande amico, prima di essere esautorati, i Fratelli musulmani hanno aggiunto ai nomi dei loro partiti le parole “giustizia” e “sviluppo”, quelle dell’Akp turco di Erdogan. Il quale era visto come un esempio di Islam moderno. Il mito è svanito. Il cessate il fuoco in Siria è stato promosso nei giorni scorsi dai turchi e dai russi, con alle spalle gli alleati iraniani (la Siria di Bashar el Assad è un’appendice della Russia), senza che venisse coinvolta la coalizione guidata dagli Stati Uniti, alla quale partecipano, almeno formalmente, anche dei Paesi arabi. Tra i quali l’Arabia Saudita e il Qatar. L’iniziativa è stata benedetta giustamente dal Consiglio di Sicurezza e approvata dagli Stati Uniti. Non si intralcia, chiunque lo compia, il tentativo di arrestare un massacro. Ma i risentimenti per il “giro di valzer” turco, con il quale Erdogan ha voltato le spalle agli amici arabi di un tempo, non si sono spenti. L’imminente ingresso alla Casa Bianca di un presidente come Donald Trump, tutt’ altro che ostile a Vladimir Putin, ridurrà la perplessità suscitata in molti governi occidentali dall’improvvisa e stretta alleanza con il leader russo di un importante membro della Nato, quale è la Turchia di Erdogan. Al momento prevale comunque la dovuta solidarietà per i morti del night club sul Bosforo.
I nemici mortali di Erdogan sono i curdi e Gülen. Per frenare l’irredentismo dei primi, a suo avviso una seria minaccia all’unità della nazione turca, Erdogan ha aiutato i ribelli sunniti in lotta contro il regime di Damasco. Li ha abbandonati quando gli è sembrata più efficace, per contenere i curdi, l’alleanza con la Russia e con l’Iran, le cui forze aeree e di terra schierate con Bashar el Assad erano impegnate contro i ribelli non jihadisti, con un’intensità maggiore a quella riservata ai terroristi di Nusra e dello Stato Islamico. Non pochi musulmani sunniti turchi sono stati feriti dal fatto che si sia preferito lasciare Aleppo, storica città ottomana, nelle mani di truppe sciite e russe. L’assassino dell’ambasciatore russo è un caso estremo, ma rivelatore.
Quello che riguarda Gülen è un altro capitolo che mette Erdogan in contrasto con una parte della società musulmana che è la base del suo partito. Del suo elettorato. Il predicatore e teologo Gülen, da Filadelfia dove vive, gestiva una fitta rete di interessi, dalle associazioni religiose alle scuole, dai giornali alle banche, dai grandi magazzini agli alberghi, non solo in Turchia. Erdogan l’ha accusato di avere organizzato il fallito colpo di Stato di luglio e ne ha chiesto l’estradizione, finora invano. Ma ha soprattutto promosso una vasta confisca dei suoi beni e un’altrettanta vasta epurazione (con arresti di militari, funzionari, magistrati, e intellettuali) nell’esercito, in particolare nell’aviazione, e nell’apparato statale, dall’insegnamento alla giustizia. Tra gli accusati di essere complici o simpatizzanti di Gülen vi sono molti religiosi, fedeli dello stesso Islam di cui Erdogan è ancora l’espressione. Ma forse in misura minore e con qualche incontrollabile contestazione.