Corriere della Sera, 2 gennaio 2017
Addio al papà di Bambi
L’uomo che faceva volare gli aquiloni sulla spiaggia pubblica di Santa Monica era piccolo di statura, gentilissimo, di età indefinibile e sempre con il cappello da pescatore calcato sugli occhi gentili. Arrivava con gli aquiloni, costruiti e dipinti a mano da lui, più belli di tutti: un incredibile millepiedi di trenta metri, una gru rosa scintillante, una rondine che sembrava muovere le ali nel vento dell’oceano. Nessuno sapeva – la sua modestia era pari alla sua mitezza – che quel signore asiatico era uno dei grandi artisti della storia del cinema, e uno dei pittori sinoamericani più importanti del Novecento.
Tyrus Wong, morto l’altro giorno a 106 anni, vedeva il mondo – e la sua vita – con la stessa semplicità con cui disegnava, allergico alla fama anche quando, novantenne, venne riscoperto dai critici e dagli storici e gli furono dedicate mostre e un bel documentario. Perché senza Wong, sostanzialmente, non ci sarebbe Bambi, almeno come noi lo conosciamo: fu lui, giovane disegnatore alla Disney, a risolvere il problema che stava fermando la produzione, e a cambiare per sempre lo stile del disegno dei fumetti (basta chiedere per esempio al moderno autore di Aladdin e Lilo e Stitch, che considera Wong un maestro). Fu Wong, dipingendo quattro piccoli acquerelli per spiegare al suo capo la sua teoria, a capire che non bisognava caricare i quadri di troppe informazioni – foglie, rami, fiori. Fu lui a capire che uno sfondo lineare – la lezione dei grandi pittori classici cinesi di paesaggi – e i bordi dell’immagine leggermente fuori fuoco avrebbero attratto l’attenzione degli spettatori sui personaggi.
Difficile oggi capire quanto una delle rivoluzioni più significative del Novecento – l’affermazione degli animali come esseri dotati di personalità e soggetti di diritti – si debba, anche, a un film di straordinario successo globale come quello sul cerbiatto di Walt Disney. Oggi che generazioni di bambini – e dei loro genitori – si sono emozionate per il «principino» della foresta Bambi e hanno pianto per l’uccisione di sua madre da parte dei cacciatori, è difficile immaginare quanto sia stato radicale quel film per il pubblico di 72 anni fa. Fu, all’uscita, un fiasco al botteghino perché c’era tanta verità, non era una fiaba – non aveva elementi di fantasia – e dalla parte dei cattivi c’erano gli uomini, i cacciatori specialmente: era, e rimane, un film apertamente dalla parte degli animali – dei più deboli.
Tyrus Wong dalla parte dei deboli c’era sempre stato per temperamento e per dolorosissima esperienza personale: era nato in una baracca della campagna cinese, dormendo con i polli e i maiali, il cibo legato con una corda al soffitto per evitare che fosse preso di mira dai topi che attaccavano ogni notte. L’addio alla madre e alla sorellina per emigrare in California con il padre, il mese di nave e per arrivare e il mese di prigionia a Angel Island, l’isola infernale studiata per respingere gli immigrati dalla Cina (fino agli Anni 60 gli europei avevano una corsia preferenziale per emigrare negli Stati Uniti), prima di essere liberato e poter cominciare una nuova vita, in condizioni di povertà soltanto leggermente meno abbiette di quelle nelle quali era nato. E poi il miracolo della borsa di studio a una scuola d’arte (si manteneva facendo lo sguattero ogni notte e raccogliendo asparagi nel weekend, disegnando cartoline di Natale), il lavoro alla Disney, prima come grafico di terza categoria e poi come «art director» di Bambi.
L’uscita dalla Disney nel brutto sciopero del 1941 – il fondatore esigeva che tutti lo chiamassero «Walt» e dopo il lavoro studiava in archivio le schede del personale per imparare a memoria i nomi di tutti i 1.200 dipendenti, ma i sindacati gli facevano venire l’orticaria – e i decenni alla Warner Brothers a disegnare «storyboard», a dare cioè corpo con pennello e colori alle idee di registi e direttori della fotografia – lavorando a capolavori come Gioventù Bruciata e Il Mucchio Selvaggio.
Dal ’68 in poi, gli anni della pensione passati a disegnare altre cartoline d’auguri – questa volta ben pagato dalla Hallmark – la lunghissima serena vecchiaia circondato dall’amore tenerissimo di figlie e nipoti e dall’attenzione di una nuova generazione di fans, le telecamere di un documentario sulla sua vita, la modestia assoluta dell’uomo il cui lavoro era stato esibito all’Art Institute di Chicago al fianco di Picasso e Diego Rivera ma diceva «mi piace disegnare aquiloni e farli volare perché passo tanto tempo a guardare il cielo».